Edith Bruck è una narratrice e poetessa, conosciuta per i suoi numerosi libri, molti dei quali ripercorrono l’esperienza della Shoah, da lei vissuta ad Auschwitz, Dachau e Bergen Belsen all’età di 13 anni. Dedica da decenni il suo talento di scrittrice alla testimonianza del dolore vissuto nei campi di sterminio, dove ha perso i genitori. Dal 1954 vive a Roma. Nel 1959 ha esordito con Chi ti ama così; da allora ha scritto moltissimi romanzi, tutti composti in italiano, una lingua “altra” in cui si sente più libera di esprimersi che nella lingua natia.

Recentemente La nave di Teseo ha pubblicato una sua nuova opera, Ti lascio dormire, pensata come una lunga lettera al marito, il poeta e regista Nelo Risi, scomparso dopo oltre dieci anni di morbo di Alzheimer. Nel volume Edith Bruck riattraversa con il marito alcuni nodi importanti della sua vita di donna, scrittrice e sopravvissuta e fa rivivere, grazie a uno stile incisivo e diretto, un mondo artistico scomparso.

Un libro per fare i conti con l’assenza di suo marito Nelo Risi?

L’assenza è una presenza interiore e scrivere è un modo per continuare una conversazione.

Lui come avrebbe vissuto questo tempo?

Nelo avrebbe reagito molto male, sarebbe rimasto molto deluso del proprio Paese.

Si riferisce al razzismo, all’antisemitismo, all’odio?

Non è neanche odio questo di cui è capace il mondo di oggi. L’odio è un sentimento forte, mentre questo è solo un gioco stupido, senza fondamento. È un odio vuoto.

E i giovani?

Forse sono delusi, disorientati, non hanno riferimenti. È tutto un parlare, una sabbia mobile interiore.

In questo periodo molte attività girano intorno alla Giornata della memoria. Serve davvero?

La malerba dell’antisemitismo non è stata sradicata. Ha avuto origine duemila anni fa. Solo con il Concilio Vaticano II Giovanni XXIII ha cancellato l’accusa di deicidio.

Tornando a “Ti lascio dormire”, all’interno ha pubblicato due lettere inedite di Primo Levi. Cosa lo lega a Nelo?

Nelo era un indignato privato, Primo Levi era un indignato pubblico. Al culmine del suo successo, volò dal terzo piano. Lui ha iniziato a essere molto desolato con il negazionismo. Diceva: «Ti rendi conto? Negano già con noi vivi. E dopo? Cosa sarà dopo?». La sua presenza era importante, perché era tradotto e ascoltato. Quando è morto, l’ho saputo dopo un’ora e mi sono messa a urlare che lui non aveva diritto di suicidarsi. Per me è come se la sua vita non appartenesse a lui, ma alla Storia. Certo, lui aveva tutto il diritto di vivere o morire. Io, però, sento forte il dovere della testimonianza, oggi più che 20 anni fa. Avverto la nube nera che copre l’Europa. Forse perché sono morte le ideologie, il comunismo e il socialismo hanno fallito. Adesso tutti sperano nelle sardine.

Lei che ne pensa?

Non si sa ancora cosa vogliano, in fondo, ma è importante che ci siano.

La preoccupa la rabbia contro i migranti?

Ha deviato l’ostilità anche verso gli ebrei. Sono comparse scritte come: «Ebrei al forno, negri per contorno». Una follia. O anche: «I figli dei migranti sono zecche». Come si possono sentire, in un Paese cattolico, cose del genere? Una signora a Padova uscendo dalla messa ha detto: «Che affoghino tutti!». Non ci ho dormito la notte. Oppure penso all’elezione di Miss Hitler: se non fossimo in pericolo, ci sarebbe da ridere. Il razzismo è un insulto anche alla fede.

Chi ne è responsabile?

Il problema è nei nonni, nei genitori e nell’insegnamento debole nella scuola. Mia madre diceva che si può dividere quel poco che c’è, che anche dal poco si può dare. Nelo non era un credente, ma un uomo di una moralità rara. Divideva talmente il suo poco che, pur avendo lavorato tutta la vita, mi ha lasciato 2000 euro. Ha sempre pensato che per una persona basta dormire sotto un tetto, un cappotto e qualcosa da mangiare. Dovevo litigare per comprargli un paio di scarpe.

Da Nelo si è sentita ascoltata?

Sì, perché all’inizio non c’era ascolto, neanche a casa, neanche tra i familiari. Volevano dimenticare. Anche i nostri libri non erano i benvenuti. La Ginzburg rifiutò “Se questo è un uomo”. Primo avrebbe fatto lo scrittore e basta da subito se non fosse andata così. Forse però nel ’ 47 era prematuro. Tutti volevano voltare pagina. I figli degli stessi deportati non hanno avuto racconti, sono stati risparmiati. Il risultato è che i giovani non sanno. C’è una certa pigrizia nell’educare i giovani.

Cosa intende?

L’unica cosa che interessa ai genitori è che i figli non si droghino. Il male, però, non è solo la droga, ma anche la non conoscenza della storia dell’altro. L’uomo non impara niente dai propri errori. Tutto si ripete.

Non c’è speranza allora?

C’è. Se tu trovi un giusto su mille, quella è la speranza. Persino nel campo ho vissuto alcuni episodi di salvezza: una volta mi hanno regalato un guanto bucato, un’altra volta un cuoco mi ha chiesto «Come ti chiami?», un soldato mi ha lanciato una gavetta con un avanzo di marmellata. Mi sembrava di rinascere in quegli attimi. Il mondo sarebbe meraviglioso… Mi chiedo perché si spendano miliardi per fare ricerche nello spazio. Cosa andiamo cercando? A me interessa la terra. Lasciamo in pace lo spazio. Mia madre diceva che dove l’uomo mette il piede non cresce più erba. Sarebbe così bello il mondo se non lo rovinassimo.

E invece è un mondo in cui crescono le disuguaglianze… L’uguaglianza non ci sarà mai, ma basterebbe almeno dare il pane a ogni bambino del mondo. La povertà causa la rivolta. Una migliore distribuzione del pane ci permetterebbe di vivere in pace. “Pace”, una delle parole più belle, completamente svuotata di senso, della sua sostanza, come altre: “amore”, “uguaglianza” appunto, “tolleranza”, “ama il prossimo tuo”… figurarsi… I comandamenti sono tutti disubbiditi.

C’è bisogno di più spiritualità?

Anche. Ma soprattutto di più accettazione e rispetto per il prossimo.

In una nuova poesia che ho scritto, sono partita da un’espressione attuale: “Prima gli italiani”, ripresa da Trump. Prima di chi? Dei francesi? Dei rumeni? Che vuol dire “prima”? Gli ultimi saranno i primi. Tutti siamo primi. Già questo motto è una distinzione, una frase razzista.

In Italia ci sono 500.000 persone che dormono per la strada. Non è tollerabile nel 2020. Purtroppo ci abituiamo a tutto. Io non sono ricca, ma mia madre diceva: “A chi tende una mano dai qualcosa”. Non do un giudizio morale di chi chiede soldi per la strada: è sempre costretto, è sempre in disgrazia. Tutti discutono del mondo incattivito. Sì, è vero. È il risultato del consumismo? Del benessere? O siamo troppo chiusi in noi stessi, ci sentiamo indifesi?

Un tempo era diverso?

Dopo la guerra, quando sono arrivata, nel ’ 54, gli italiani erano generosi e accoglienti. C’è chi dice che ci vorrebbe un’altra guerra. Ma è folle sperare in un’altra guerra.

Vivevo in una stanza ammobiliata, inquilina di una famiglia che aveva la foto del duce, del Papa e del re attaccate alla parete, però mi offrivano quel poco che avevano. La superficialità è la migliore qualità degli italiani. La massa applaude a chi grida di più, è accecata. Gli ungheresi erano molto più duri, ma anche loro alla fine sono passati dal fascismo al comunismo come niente fosse. La gente si adegua, pur di vivere. Basta vedere un programma televisivo: entra uno di destra o di sinistra, il pubblico applaude sempre. C’è una grande confusione, e la massa è pericolosa.

Nel libro lei parla anche del mondo dell’editoria… Quel mondo degli anni Settanta - Ottanta è morto. Il libro oggi è merce, interessa solo la sua vendibilità. Un libro serio disturba, perché non si vende. Ho composto una raccolta di poesie dopo trent’anni dall’ultima: la mia agente si è spaventata. Un mondo senza poesia, senza musica, è come una cucina senza pane. In libreria è difficile trovare un libro di versi, perché la poesia è anche politica, rivoluzione.

Le manca quel mondo editoriale?

Un tempo pranzavo a casa con Cesare De Michelis di Marsilio, Valentino Bompiani mi scriveva lettere, oggi non hai un rapporto diretto, umano, con il tuo editore. Fino agli anni Novanta c’era. Se vendi molto sono disponibili. Quello che scrivi non è importante per loro, ma per te, per loro conta non rimetterci. Quest’aria così distaccata si sente anche quando si va dal fornaio. Frequenti un negozio per sessant’anni, chiude e neanche te lo dicono. Prima era tutta una chiacchiera con i negozianti.

C’è molta solitudine e poca generosità. Quando suo marito Nelo si è ammalato di Alzheimer lei lo ha tenuto a casa per anni e le è sembrato di far rivivere anche i suoi genitori uccisi nel lager…

Ho accudito Nelo per quasi undici anni. L’ho tenuto in vita con la cura e con l’amore. Molti ragazzi mi hanno scritto che dopo aver letto il libro in cui racconto questo periodo, “La rondine sul termosifone”, pubblicato sempre dalla Nave di Teseo, vanno a trovare il nonno tutti i giorni. Attraverso i miei libri forse ho dato qualcosa in questo senso. Io credo che in ognuno ci sia una parte positiva, ma va tirata fuori. Se si lavora sul bene lo si trova, la speranza è lì. Forse anche i giovani sono meglio di quel che si dice. L’altro giorno ho parlato con duecento ragazzi in una scuola. Sono arrivata morta e sono tornata viva.