Una moltitudine di “pellegrini” si è affollata ieri nel piccolo cimitero di Hammamet attorno all’umile tomba di Bettino Craxi. Speriamo che questo sia stato l’ultimo atto di quella “guerra civile” combattuta per due decenni intorno al fantasma - paradossalmente sempre vitale - di Craxi che non fa onore all’Italia e condanna coloro che vollero morisse in terra straniera, per quanto amata, perché non era alla loro altezza: consapevoli, ormai tutti o quasi, che è stato l’ultimo grande statista della seconda metà del Novecento.

E come tale in grado di suscitare “entusiasmi e risentimenti di portata emozionale da travalicare il dato della politica”, come scrive Andrea Spiri nel suo puntuale “promemoria” L’ultimo Craxi. Diari da Hammamet ( Baldini+ Castoldi). Lo scavo nei suoi pensieri, a cui Spiri - sine ira et studio - si è dedicato come un entomologo, ci riporta un frammento di storia italiana intessuto di forza morale che tuttavia non si rassegna ad un destino scritto da altri per lui, additato ingiustamente come capro espiatorio della Grande Corruzione. Vittima del giacobinismo italico, ben più straccione di quello della Rivoluzione dell’ 89, Craxi reagiva come poteva, ma non si sottraeva.

Dei finanziamenti illeciti e della parte di essi che affluiva al PSI, Craxi era naturalmente conscio, lo sapeva, lo rivendicava, non si nascondeva dietro il velo dell’ipocrisia. “La differenza è che Craxi le sue responsabilità materiali e morali se le è assunte senza ipocrisie e senza infingimenti, gli altri capi invece no. Ciò significa anche che Craxi - cui da un certo momento in poi non mancavano risultare anche ingenti - non ha mai perso l’anima per arricchire se stesso. Il denaro per lui è sempre rimasto un mezzo per fare politica, per incrementare tutte le attività di partito, le possibilità e le iniziative della sua politica interna e internazionale”, ricorda Claudio Martelli nella sua inappuntabile ricostruzione della storia di un leader, L’antipatico. Bettino Craxi e la Grande coalizione ( La nave di Teseo).

Il collaboratore più stretto, per anni, del segretario del partito, poi perdutosi nelle nebbie del post- craxismo, offre una chiave di lettura assai convincente. Comunque la si pensi, quale che sia stato il giudizio sull’uomo politico, sul governante, sullo statista, sul difensore dei diritti dei popoli, sul nazionalista - sì, proprio così - per quanti distinguo si possano fare intorno al suo “socialismo tricolore”, bisogna ammettere che Craxi ha interpretato la sua missione politica come una missione nella quale le ragioni del socialismo si coniugavano - o dovevano coniugarsi - con quelle della nazione.

Era antipatico, sostiene Martelli, perché quel che diceva e pensava e sentiva e amava non lo lasciava decantare su qualche davanzale del progressismo sul quale quale si celebravano i fasti di una borghesia ingorda e bugiarda, per nulla interessata al Paese reale, ma dedita a tutelare i centri affaristici. E quell’antipatia “costruita” dai grandi editorialisti e dagli imprenditori che flirtavano con la Dc, il Pci, spezzoni di pentapartiti e poteri fuori controllo venne rilanciata nel Paese fin dal quando nel 1976 assunse la segreteria, al culmine della stagione piò orrenda politicamente, della vita del PSI nel dopoguerra. Insomma, era antipatico perché nel tempo del crollo delle ideologie rivendicava il primato della politica, mentre quasi tutti gli altri partiti erano sottomessi alle logiche della finanza e della pervasività mass- mediale.

E poi perfino il nazionalismo non poteva farlo amare da chi venerava il capitale un po’ vergognandosene pubblicamente, molto incensandolo nei circoli che contavano. Se asseriva: “io sono nazionalista”, aggiungeva anche “Come Mazzini, come Garibaldi”. E cresceva in lui - scrive Martelli - “l’insofferenza politica per la doppia subalternità italiana: quella dei governi al superpotente alleato americano e quella dell’opposizione comuni- sta all’egemonismo sovietico”.

Insomma, “Il socialismo tricolore di Craxi non esprimeva solo la volontà di superare la storica frattura tra socialismo e nazione. Era – è – una forma di nazionalismo originale e temperato che vede nelle nazioni e negli stati nazionali le fondamenta dell’ordine internazionale moderno. Quest’ordine deve essere organizzato nella pace e nella solidarietà, perseguito col metodo del negoziato e il primato della politica che possono scongiurare o arginare il ricorso alla forza. La pace e la solidarietà rigettano la guerra, ma non possono escludere la lotta armata quando una nazione è minacciata nella sua indipendenza.”

Fedele a questa tendenza, nell’ottobre del 1985, a Sigonella sfidò gli Stati Uniti ordinando ai carabinieri di circondare gli uomini della Delta Force che volevano catturare e portare in America i terroristi sequestratori dell’Achille Lauro. Disse Craxi: “Io contesto all’OLP la lotta armata e il terrorismo non perché ritenga che non ne abbia diritto, ma perché faranno solo vittime innocenti, ma non risolveranno il problema palestinese.”

La Grande Riforma al cui centro vi era l’elezione diretta del presidente della Repubblica, un decisore democratico al vertice dello Stato. Nonostante la sua convinzione, comunque, Craxi si volse ad altro, come l’abolizione del voto segreto in Parlamento, e non ingaggiò mai una vera e propria battaglia per porre all’ordine del giorno la Grande Riforma sulla quale anche la Destra avrebbe fatto convergere il suo interesse che, storicamente, era o primario rispetto a quello socialista. Un’occasione perduta.

Non perse però l’occasione per criticare, prima che altri se ne accorgessero, la costruzione dell’Unione europea che oggi lo riporta al centro di una riflessione che lui innescò con grande lungimiranza. Secondo Craxi, per come ricorda Martelli “ nell’interesse della nazione, il governo deve rinegoziare Maastricht per ottenere non qualche sconto sui parametri, ma anche che le misure per la crescita economica e per il progresso sociale abbiano la stessa priorità di quelle per il mercato, la concorrenza, la competitività. Craxi è preoccupato perché vede prevalere in Europa una strategia mercatista che piace ai gruppi egemoni e agli strati sociali più garantiti, ma che può dispiacere e fare molto male a chi vive modestamente del proprio lavoro”. Appunti di una storia. Una storia, che vive paradossalmente nel simbolo racchiuso Hammamet, di fronte al Mediterraneo.