Il 19 gennaio del 2000, venti anni fa, Bettino Craxi si mise a letto per riposare qualche ora e non si svegliò più. Era nella sua casa di Hammamet, lontano dall’Italia, dove una campagna diffamatoria bene orchestrata e resa esecutiva a colpi di sentenze aveva trasformato lo statista di Sigonella, il presidente del consiglio che aveva salvato l’Italia dal baratro aperto da un’inflazione galoppante, in un criminale. Adesso, meglio tardi che mai, comincia a farsi strada nella cosiddetta opinione pubblica, nel mondo politico, nei giornali, nelle televisioni e nei social network un giudizio meno fazioso sul ruolo svolto da Craxi, segretario del Psi e capo del governo, nell’Italia degli anni settanta e ottanta del secolo scorso.

C’è, invece, chi non ha aspettato tanto per dare a Craxi quel che è di Craxi. Zine El- Abidine Ben Alì è stato il secondo Presidente della repubblica tunisina dopo Habib Bourghiba, il fondatore del giovane Stato nordafricano. E’ lui a decidere il 19 gennaio del 2007, tredici anni fa, di dedicare una strada di Hammamet a Bettino Craxi, lo statista esule accolto e protetto nel 1994 come “rifugiato politico” sulla base di un trattato stipulato tra l’Italia e la Tunisia. E’ una bella strada questa “Avenue Benedetto (Bettino) Craxi”. Ma è soltanto una delle tante testimonianze dell’affetto con cui Craxi è stato accolto in tutta la Tunisia e in particolare ad Hammamet, dove in un ristorante c’è ancora un tavolo riservato a “monsieur le president”. Non lo hanno dimenticato i cileni. L’11 settembre del 1973 il golpe del generale Pinochet instaurava in Cile una feroce dittatura militare. Il presidente della repubblica, il socialista Salvador Allende, moriva nella difesa disperata del palazzo presidenziale. E il suo corpo fu sepolto nel “Cementerio General de Recoleta”, non lontano da Santiago. Bettino Craxi era in quel tempo vicesegretario del Psi e, poche settimane dopo il colpo di stato, guidò una delegazione socialista in Cile per deporre un fascio di garofani rossi sulla tomba di Allende. Missione impossibile. Una schiera di soldati in assetto di guerra non lasciava avvicinare nessuno. Proteste e tentativo di avanzare, ma inevitabile rinuncia quando uno dei militari punta il mitra contro i delegati e urla: “Un paso mas y tiro”.

I cileni ricordano. Certo, l’episodio del 1973, ma ricordano soprattutto, a cominciare da quella data, le iniziative di Craxi a favore della resistenza cilena contro il regime dittatoriale. Ingenti contributi finanziari ai movimenti clandestini, ospitalità agli esuli e una costante denuncia dei misfatti di Pinochet, più volte inoltrata a Reagan e particolarmente dura e impegnativa in un discorso al Congresso Usa del 1985. Nel cimitero di Recoleta, a pochi passi dalla tomba di Allende, sorge ora una “Plazoleta Bettino Craxi”. Nella targa che la sovrasta figura una foto dello statista italiano e alcune note biografiche. Si legge, tra l’altro, che Craxi “appoggiò con passione e vigore la causa del ritorno della democrazia nel Cile”.

Ma i movimenti di liberazione cileni non sono stati gli unici a usufruire di un sostanziale appoggio da parte di Craxi e dei socialisti italiani. C’è chi ancora si chiede, con una buona dose di disinformazione o di malafede, dove sono finiti i soldi delle tangenti versati al Psi – come a tutti i partiti italiani, tranne i Radicali – negli ultimi anni della prima Repubblica. Non è difficile rispondere. Gran parte di quei fondi si sono trasformati in aiuti ai popoli oppressi. Ne sa qualcosa Felipe Gonzalez, il leader socialista spagnolo dei primi decenni del post- franchismo, che non ha mai rinnegato la sua amicizia e la sua solidarietà con Craxi. Ne sapeva qualcosa Mario Soares, primo ministro portoghese dal 1986 al 1996. Ne sanno qualcosa i dirigenti di “Solidarnosc”, il sindacato cattolico che fece crollare il regime comunista in Polonia, gli ungheresi e i cecoslovacchi. Ma in quest’ultimo caso Craxi fece qualcosa di più. Uno dei maggiori dirigenti della “Primavera di Praga” esule in Italia, Jiri Pelikan, fu eletto al Parlamento europeo nelle liste del Psi per due legislature. In America latina gli aiuti dei socialisti italiani sono andati all’argentino Alfonsin, al brasiliano Lula, al peruviano Garcia, al venezuelano Perez e all’uruguaiano Sanguinetti. In Africa, ai movimenti di resistenza di Palestina, Somalia ed Eritrea. Per Craxi era naturale aiutare i popoli oppressi di tutto il mondo. L’internazionalismo socialista l’aveva respirato fin da bambino.

Bettino Craxi è presidente del consiglio dei ministri nel 1983. Il suo governo (in due manches consecutive) dura complessivamente 1272 giorni. Dopo quelli di De Gasperi è il più duraturo della Repubblica ed è, soprattutto, un governo che ottiene risultati ampiamente positivi. In politica estera, l’Italia acquista un rispetto internazionale mai ottenuto prima, a cominciare dagli Stati Uniti. Dopo lo scatto d’orgoglio nazionale di Sigonella, Reagan chiede d’incontrare Craxi, gli stringe la mano e istalla alla Casa Bianca un telefono rosso per i contatti diretti con il presidente del Consiglio italiano. Ma non basta. Il 28 e il 29 giugno del 1985, a Milano, in una riunione dei capi di stato e di governo dell’Unione Europea, Craxi sostiene la necessità di indire una conferenza intergovernativa per riformare alcune parti del trattato istitutivo dell’unione. Margareth Tathcher è contraria. I rappresentanti degli altri paesi appoggiano la proposta italiana e la “lady di ferro” britannica resta sola in minoranza. Non era mai accaduto e non accadrà più. In economia, il taglio della scala mobile e la vittoria nel referendum voluto dai comunisti provocano la discesa dell’inflazione dalle percentuali sudamericane dei mesi precedenti fino a un ragionevole quattro per cento. E l’Italia evita la bancarotta.

Il 17 febbraio 1992 è arrestato a Milano Mario Chiesa, un dirigente periferico socialista, per una tangente di 14 milioni di lire, appena consegnatagli da un giovane imprenditore. E l’inizio di “Mani pulite, l’operazione politico- giudiziaria che in un anno distruggerà i partiti che avevano fatto la storia d’Italia dal dopoguerra agli anni novanta, con le uniche eccezioni del Pci e del Movimento sociale italiano, decretando così la fine della democrazia come la si intende nel mondo occidentale. Finanziamento illegale dei partiti e corruzione attraverso un collaudato e capillare uso delle tangenti. Queste le accuse della procura di Milano, guidata da Francesco Saverio Borrelli e con Antonio Di Pietro nell’imitazione nostrana di Viscinski, il grande accusatore dei tribunali staliniani. E, per renderle credibili alla magistratura giudicante, gli accusatori adoperano ogni mezzo, a cominciare dalle carcerazioni preventive, usate per ottenere chiamate di correo nei confronti di persone innocenti. Il socialista Sergio Moroni, Gabriele Cagliari e Raul Gardini pagano con il suicidio colpe marginali o addirittura inesistenti. Borrelli, a conclusione dell’operazione, afferma pubblicamente che i magistrati artefici di Tangentopoli aspettavano una chiamata del Presidente della Repubblica, cioè che erano pronti a sostituirsi alla classe politica.

Il bersaglio principale è Bettino Craxi. Sparano (metaforicamente) su di lui i comunisti, uomini e potentati bastonati dal “decisionismo” craxiano, occultamente ma con efficacia gli americani, la Cia, il Pentagono, che non hanno dimenticato Sigonella e le numerose prove d’indipendenza fornite dallo statista italiano. Ma lui risponde alla sua maniera. Rilancia.

Il 3 luglio del 1992 conferma in un discorso alla Camera ciò che “tutti sanno”, e cioè che i partiti, soprattutto i più grandi, “hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale”. E se c’è qualcuno che afferma il contrario, aggiunge, si alzi e lo dica, “i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”. Naturalmente, tutti rimasero seduti. La conseguenza dell’intervento era che il finanziamento illegale ai partiti era un problema politico, da risolversi politicamente e non nelle aule giudiziarie. Ma nessuno si alzò a sostenerlo. Inutilmente, in un secondo discorso del 24 gennaio 1993, sempre a Montecitorio, Craxi denuncia il “gioco al massacro” che lo aveva coinvolto e propone la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’azione di “Mani pulite” e sui finanziamenti registrati dalla politica negli ultimi venti anni.

Poi è Hammamet, per sei anni, fino al 19 gennaio del 2000. Anni difficili, di riflessione e di lotta, mai di resa. Craxi è solo, solo con il suo diabete, con il suo tumore che lo porterà alla morte. Con le sue passeggiate sulla spiaggia, con i suoi colloqui con i pescatori tunisini. Con le sue penetranti analisi sulla situazione politica italiana, con i suoi momenti di sconforto e con le decisioni meditate. “Esilio sì, ma né dorato né argentato”, “la mia libertà equivale alla mia vita”. “Non tornerò in Italia, né da vivo né da morto”.

Una vita esente da errori? No, di certo. Come non commetterne in tanti anni di attività politica ai massimi livelli? Pannella, a conclusione del governo a guida socialista, scrive a Craxi una lettera che, pannellianamente, non comincia con “Caro Bettino”, ma con “Brutto coglione”, e in sedici righe elenca gli “undici errori” che il leader radicale attribuisce a Craxi, dal Concordato al proibizionismo sulle droghe. E la figlia Stefania ammette: “Il finanziamento illegale genera corruzione e il suo vero errore fu di non accorgersi di quanto fosse cresciuto il livello di corruzione nel partito. Ma il finanziamento illegale non comincia certo con Craxi…. Nel 1976 Craxi trova un sistema oliato da anni. Per lui il denaro era un’arma per la politica… Non a caso, è morto povero”. E forse oggi comincia veramente, dopo venti anni di ostracismo, non la riabilitazione, termine pessimo e del tutto inadatto, ma un cammino di verità sulla vicenda umana e politica di un gigante dell’Italia repubblicana.