L’uccisione del generale Qassem Soleimani, su ordine del presidente Trump, ha un significato molto importante per l’Italia e per l’Europa.

L’attuale comandante in capo degli Stati Uniti, salvo clamorosi colpi di scena, uscirà vincitore dalle elezioni presidenziali di novembre.

Trump ha dato una decisiva dimostrazione di forza e di determinazione, la qual cosa conta molto nelle elezioni americane.

Ora è più difficile attaccarlo e processarlo. Il rischio di impopolarità ( verso il quale Nancy Pelosi aveva già messo in guardia mesi fa) per i suoi nemici al Congresso è molto alto.

Ma, soprattutto, Trump ha dimostrato di avere dalla sua parte l’intelligence toto corde. L’operazione per il modo in cui è stata condotta ( in particolare, carattere chirurgico e politicamente mirato dell’attacco) porta il marchio della CIA, che aveva cominciato a soffrire, in Iraq e in Patria, con la presidenza di Bush jr, per essere messa sul banco degli imputati nell’era Obama: alla Company, giudicata troppo schiava degli schemi della Guerra fredda, si preferiva l’intelligence militare, più “duttile” rispetto agli input dell’Esecutivo.

L’Italia e l’Europa si troveranno di fronte, dunque, un Trump 2, certamente ( ancora) più spavaldo di adesso e determinato a passare alla storia, come accade per tutti i presidenti USA alla rielezione: di fatto, la durata effettiva del mandato, salvo gravi incidenti di percorso, è ormai di otto anni, con una grade verifica centrale e determinante e due verifiche soft intermedie ( negli USA si vota ogni due anni per il rinnovo completo della Camera e l’elezione di un terzo dei senatori). È sbagliato parlare di un’America neo- isolazionista. La dottrina- Trump è abbastanza chiara. Gli Stati Uniti non consentiranno mai, a qualunque prezzo, il consolidamento di un polo geopolitico ( e geoeconomico, specialmente sul fronte dell’energia) antiamericano ( e antioccidentale).

L’uccisione di Soleimani è una risposta non solo all’assalto all’ambasciata USA a Bagdad, ma anche all’esercitazione militare congiunta tra Russia, Cina e Iran tenutasi nelle acque dell'Oman a fine dicembre.

Il messaggio è arrivato forte e chiaro. Lo si comprende dalle caute reazioni dei cinesi ( che invitano gli USA alla “calma”) e dei russi ( che lamentano il fatto che il mondo oggi sia meno “sicuro”).

Nella prospettiva del Trump due, Italia ed Europa devono decidere cosa fare in Libia.

La crisi libica è, tra le altre cose, parte della guerra civile scatenatasi da circa decennio nell’Islam sunnita, con l’Islam popolare (“fratellanza musulmana” e sue varie affiliazioni, anche in ambito sciita, sostenitori dell’” alternativa islamica” e dell’inarrestabile tramonto dell’Occidente), da una parte, e Haftar, Emirati, Sauditi e l‘ Egitto di Sisi, dall’altra. La Libia rischia di polarizzarsi sullo scontro – o su eventuali, possibili, accordi tra – tra Ankara e Mosca. Ciò sarebbe esiziale per l’Europa. Si pensi, solo, all’esposizione del Vecchio Continente all’uso dei flussi migratori provenienti dall’Africa, come arma di ricatto politico ( un rischio rispetto al quale le democrazie, per via del loro impianto giuridico garantista, sono particolarmente vulnerabili: v., ad esempio, Cuba vs Stati Uniti negli anni Cinquanta o, di recente, Turchia vs.

Europa). Tutto ciò, mentre avanza il processo di “sinizzazione” del Continente nero, debolmente contrastato qua e là da parte di gruppi islamici. Sicché gli equilibri geopolitici ed economici africani si svilupperebbero nell’ambito dei rapporti tra Cina, Russia e l’Islam nelle sue varie componenti.

Gli Stati Uniti non possono fare tutto da soli. Anche qui il presidente degli Stati Uniti è stato molto chiaro: questa è la chiave del suo presunto neo- isolazionismo. Nel Mediterraneo l’Europa deve fare la sua parte. E non è pensabile avere un ruolo nel Mediterraneo senza disporre di una forza militare credibilmente dissuasiva. L’Europa non ha un esercito ( e l’aria che tira a Bruxelles non sembra essere favorevole in tal senso). Ma i Paesi europei sono nella NATO, che dispone di una forza dissuasiva senza pari. Della NATO – si dirà – fa parte anche la Turchia. È vero e si registrano tensioni in tal senso ( e alla diffidenza degli USA verso la Turchia molti fanno risalire le voci relative all’imminente trasloco di cinquanta testate nucleari NATO dall’Anatolia al Friuli).

Tuttavia, l’impegno NATO nell’area libica potrebbe essere anche la via maestra per portare a un ridimensionamento delle ambizioni neo- ottomane di Erdogan, il quale, peraltro, ha spesso lasciato intendere che egli punta più a un’egemonia economico- culturale nell’area dell’ex impero, che non a un controllo politico- militare. In ogni caso, non sembrano esserci alternative.

Sarebbe la via maestra per l’Europa per cominciare a fare “grande politica” ed evitare di lasciare agli Stati Uniti il monopolio della difesa dell’Occidente.

* Preside della Facoltà di Scienze Politiche, UNINT- Roma'