I due sovranismi sulle opposte sponde dell’Atlantico sono preda del sistema giudiziario: il presidente americano Donald Trump inchiodato dalla procedura di impeachment e il leghista Matteo Salvini, braccato dalle procure ultima in ordine di tempo per sequestro di persona nel caso della nave Gregoretti ( il 27 luglio scorso, secondo i giudici, il ministro abusò dei suoi poteri privando della libertà 131 migranti a bordo della nave della Guardia costiera). «Mal comune mezzo gaudio», ha sdrammatizzato con una alzata di spalle il leader del centrodestra, anche se proprio così non è e l’unico a non gioire rischia di essere proprio lui.

Trump, infatti, supererà indenne la procedura grazie al salvataggio del Senato a maggioranza repubblicana e, anzi, il clamore mediatico lo sta aiutando a polarizzare il consenso e a galvanizzare ulteriormente la sua base in vista delle presidenziali del 2020. Salvini, invece, senza lo scudo fornito dai 5 Stelle per il caso Diciotti, rischia seriamente di finire davanti ai giudici privo di ogni immunità ministeriale. La decisione della Giunta per le immunità del Senato è attesa per il 20 gennaio, ma l’esito probabilmente risponderà alle nuove geometrie del governo.

Entrambi i leader, tuttavia, hanno utilizzato lo stesso argomento: è in corso una reazione del sistema giudiziario e della sinistra contro i movimenti della destra sovranista, e l’attacco viene portato non con le armi del voto ma con i cavilli della burocrazia parlamentare americana e dei processi italiani. L’obiettivo, però, è lo stesso: secondo Salvini si punta a «sovvertire la volontà popolare», secondo Trump si vuole «annullare il voto di milioni di americani e il risultato elettorale».

Uguale difesa, diverso il risultato. Il tycoon, nella sua bulimia comunicativa, ha compattato abilmente i suoi sostenitori in ottica pre- elettorale, forte anche del fatto di essere al governo e di poter contare sullo scudo del Senato, dove il Gop ha già fatto sapere di sostenere il presidente. Si è spavaldamente opposto ad ogni accusa ( le due imputazioni sono abuso di potere per le pressioni fatte sul presidente ucraino Zelensky perchè indagasse sulle attività dei Biden a Kiev; e ostruzione del Congresso, per aver ostacolato l’inchiesta sul suo comportamento) con un «Non ho fatto nulla di male» e poi per iscritto in una infuocata lettera alla speaker democratica Nancy Pelosi. In una parola, ha fatto ciò che gli riesce meglio: ha reso mediatico il conflitto, spostandolo dal piano del merito a quello dello scontro con i «democratici nullafacenti».

Ai quali, però, rimane nella manica un ultimo asso che non fa certo vincere la partita ma almeno ristabilisce gli equilibri: Pelosi può decidere di ritardare la consegna della documentazione al Senato, fino a quando non avrà la certezza che nella Camera alta si svolga un processo “equo”, con i nuovi testimoni ( come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Bolton e il capo di gabinetto della Casa Bianca Mulvaneyil, che potrebbero rivelare ulteriori informazioni scabrose su Trump).

Ritardando gli effetti dell’assoluzione, si otterrebbe almeno l’effetto di lasciare l’inquilino della Casa Bianca in un limbo politicamente paludoso. Salvini, invece, si è trovato al giro di tavolo con la mano sbagliata. Il leghista trasmette l’esatto senso di accerchiamento che prova: «Rischio 15 anni di carcere», ha ricordato ieri, ribadendo come le scelte assunte se le sia intestate lui, ma erano state «condivise con Conte e Di Maio». I quali, però, scaricano qualsiasi responsabilità e lasciano sulle spalle dell’ex ministro che tanto all’epoca capitalizzò in termini di consenso le sue scelte sui migranti - tutto il peso dell’accusa.