L’annuncio di un possibile imminente invio di truppe militari in Libia da parte di Erdogan è una clamorosa conferma del fatto che sulla ex quarta sponda italiana si sta giocando una partita geopolitica globale, che riguarda soprattutto l’Europa.

Il governo di Tripoli è sostenuto dalla Turchia, dal Qatar e dalla stragrande maggioranza dell’Islam popolare, che comprende la Fratellanza musulmana e le varie affiliazioni ( in prevalenza sunnite, ma anche sciite) presenti in Occidente e nel Medio Oriente orientate su quell’ideologia. Dall’altra parte troviamo i Sauditi, gli Emirati e l’Egitto di al- Sisi, che invece sostengono Haftar, con il fondamentale supporto della Russia e un ruolo non marginale dei francesi.

L’annuncio del leader turco fa seguito a un accordo marittimo stipulato a fine novembre tra Ankara e Tripoli sulla demarcazione dei confini marittimi: di fatto si prospetta uno spazio di controllo marittimo condiviso che, sulla carta geografica, si presenta come una sorta di grosso canale nel Mediterraneo che unisce i due Paesi. L’accordo, a sua volta, è anche una reazione a un memorandum precedentemente firmato da Grecia, Israele e Cipro ( con l’appoggio molto probabile del Cairo), per la realizzazione di una Zona economica esclusiva nell’area.

Quest’ultimo memorandum era chiaramente ostile alla Turchia: la perdita del controllo nel Mediterraneo orientale è l’incubo di Erdogan, perché fu così che cominciò il declino dell’impero ottomano.

L’evoluzione di questa partita ha effetti rilevanti sulla sicurezza e sul futuro economico dell’Europa. Da essa, ad esempio, dipendono in gran parte le dinamiche migratorie, sia quelle africane sia quelle mediorientali, nonché le prossime scelte di politica energetica.

Per essere presenti nello scenario libico occorre una forza militare. Moral suasion e soft power possono funzionare quando il quadro della crisi è relativamente circoscritto quanto alle dimensioni e agli attori. In una situazione come quella libica, è necessario innanzitutto essere fisicamente presenti, legittimarsi sul campo, acquisire credibilità e poi, su queste basi, tentare di lavorare per nuovi equilibri.

Ma l’Europa non dispone di una forza militare e i recenti segnali arrivati dalla presidenza finlandese del Consiglio non sono incoraggianti. La proposta di budget presentata prevede un dimezzamento dei fondi per i settori di spazio e difesa.

Il Presidente del Parlamento europeo ha annunciato battaglia, ma il pacifismo e l’antimilitarismo sono ormai senso comune in Europa. In Italia, ad esempio, li si spaccia per principi costituzionali, quando invece la nostra Costituzione dice chiaramente che l’Italia deve cooperare, se necessario anche sul piano militare ( come del resto s’è fatto più volte), alla stabilità internazionale.

È comprensibile, dunque, che i Paesi “forti” si organizzino per proprio conto, pur seguendo strategie e filosofie diverse. Il presidente francese Macron dice che la Nato non serve più e che bisogna lanciare l’esercito europeo ( a trazione francese, s’intende).

La cancelliera Merkel, per parte sua, difende la Nato, affermando che non esiste un aut- aut tra difesa europea e alleanza atlantica. Intanto, però, Francia e Germania firmano l’accordo di Aquisgrana all’inizio di quest’anno, che prevede, tra le altre cose, una clausola di reciproca difesa in caso di aggressione militare, in analogia con quella vigente tra i Paesi dell’Alleanza atlantica.

In questo scenario risalta con particolare forza la specularità delle debolezze dell’Italia e dell’Europa. L’Italia non è mai stata così “europea”: nessuna politica mediterranea, assenza di peso nelle relazioni tra i big players globali e regionali, allergia a ogni ragionamento serio in materia militare. Il problema è che nella politica ( specie oggi, nel Mediterraneo) vige la legge dell’horror vacui: chi non sa o non vuole decidere dovrà poi acconciarsi alle decisioni altrui.