Va bene che siamo in vista del Natale ed è quindi la stagione dei presepi, ma la discussione svoltasi al Senato sui rapporti fra i poteri dello Stato - promossa da Matteo Renzi sull’onda delle indagini riguardanti i finanziamenti della sua attività politica quando ancora faceva parte del Pd, ne scalava il vertice e si difendeva dal cosiddetto fuoco amico di cui si è liberato solo uscendo dal Nazareno e fondando la sua Italia Viva non mi ha per niente fatto sentire nei panni di qualche ammirato e partecipe zampognaro. Non c’era francamente da festeggiare nessuno sceso dalle stelle.

Innanzitutto non mi è piaciuta per niente quell’aula che si faceva notare più per le assenze che per le presenze, a cominciare dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che ha affidato le redini della seduta alla vice presidente grillina Paola Taverna: degnissima persona, per carità, al netto dei suoi comizi di una volta, quando non nascondeva la voglia di sputare addosso a qualche collega parlamentare che non gli piaceva, come l’allora senatore Silvio Berlusconi, ma credo francamente la più lontana dalla sensibilità garantistica che mi sembrava sottintendere l’accoglienza del dibattito chiesto da Matteo Renzi.

Non mi sono piaciuti nemmeno quei banchi del governo completamente deserti, o disertati, come se all’esecutivo non dovessero e non debbano per principio interessare temi come quelli all’esame dell’aula. Né mi sono piaciuti, infine, i richiami che considero tardivi dello stesso Renzi a Craxi, Moro e Leone per supportare, diciamo così, le sue forti preoccupazioni per le condizioni alle quali si è ridotta la politica per pavidità, o opportunismo del giocatore di turno, nei rapporti con la magistratura e con la piazza che l’affianca o sostituisce nei processi agli avversari del giorno o della stagione.

Di Craxi, il senatore Renzi ha permesso troppo a lungo una vera e propria demonizzazione per essere ora credibile nel portarne il suo celebre discorso alla Camera nel 1992 ad esempio dell’orrore che deve procurare ad una politica degna di questo nome il vuoto che si crea con la confusione dei poteri. Di Craxi ricordavo sino all’altro ieri solo l’aggettivo “diseducativo”, o “non pedagogico”, adoperato da Renzi quando se ne parlava, riducendo quindi anche lui la storia del leader socialista a quella giudiziaria di un latitante indegno di essere ricordato con qualche targa stradale o di piazza, a Firenze e altrove.

Piuttosto, di Craxi l’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio avrebbe fatto meglio a rivendicare una certa eredità o ispirazione nei tentativi, che volentieri riconosco anche a lui, di ammodernare la sinistra e le istituzioni. Tanto volentieri riconosco a Renzi questi tentativi da avere cercato da elettore di aiutarlo nel 2016 votando, e perdendo, nel referendum cosiddetto confermativo sulla sua riforma costituzionale, per quanto in alcuni passaggi pasticciata. Sarebbe stato sempre meglio di niente, visto anche come sono andate poi le cose ai fini della governabilità del Paese. Di Craxi avrebbe potuto ricordarsi Renzi anche quando da presidente del Consiglio, pur rivendicando “il primato” della politica, ha contribuito all’uso distorto, con dimissioni di ministri a furor di giornali, per sospetti traffici di influenze: una fattispecie di reato che parla da sé. Non mi ha convinto del tutto neppure il richiamo di Renzi a Moro e al suo rifiuto dei processi di piazza, di cui poi, subito dopo la morte dello stesso Moro, rimase ugualmente vittima secondo lui l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, coinvolto mediaticamente, neppure processualmente, nel cosiddetto scandalo Loockhed.

Più che di quei processi di piazza Leone rimase vittima, costretto praticamente a dimettersi sei mesi prima della scadenza del suo mandato al Quirinale, dell’uso politico che di essi si decise di fare dai partiti, compreso quello dello stesso Leone: la Dc. Nel 1978 Renzi aveva solo tre anni, beato lui. Qualcuno dovrà pur decidersi a raccontargli, spiegargli e quant’altro che Leone fu costretto alle dimissioni non per gli scandali contestatigli persino - ahimè- dai radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino, destinati a pentirsene dopo una ventina d’anni, ma per le resistenze da lui opposte alla gestione del sequestro Moro da parte del governo di allora - un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti- e dei partiti che lo sostenevano.

Leone non condivise né la cosiddetta linea della fermezza immediatamente annunciata, e da lui contestata personalmente al segretario della Dc Benigno Zaccagnini in un colloquio al Quirinale, né la maniera - tra l’atroce e l’ambiguo - in cui veniva applicata. Altro che la presunta o reale trattativa fra lo Stato e la mafia per fermare le stragi del 1992 e successive, su cui si stanno ancora celebrando processi, stampando libri e consumando carriere di toghe. E’ il delitto Moro, nel 1978, il buco nero della storia della nostra Repubblica, anche più della orribile strage di Piazza Fontana di cui stiamo celebrando i 50 anni.