La guerra del M5S sulla riforma del Mes è finita ( per ora) con un classico rinvio fondato sull'ambiguità. La risoluzione di maggioranza poggia sul rinvio dell'accordo finale strappato all'Eurogruppo del 4 dicembre da Gualtieri, sottolinea la “logica di pacchetto” che per avere senso dovrebbe tradursi in un voto contestuale su tutti e tre i capitoli della riforma complessiva o almeno su un impegno preciso sui due punti inaccettabili per l'Italia: il limite al possesso di titoli di stato da parte di banche e istituti finanziari e la “ponderazione” dei titoli di Stato sulla base del rischio reclamata dalla Germania.

Se si tiene conto del fatto che proprio su questi due scogli, in particolare sulla ponderazione, si è arenata la trattativa all'Eurogruppo scorso rinviando tutto a giugno, appare difficile l'ottenimento di garanzie cogenti, per non parlare poi di un voto contestuale, quando in gennaio si tratterà di licenziare il trattato sul Mes o quando, entro marzo, arriverà l'ora della firma.

I dolori dei 5S in materia di Mes, e in generale di rapporto con la Ue, sono in realtà appena cominciati. La vicenda ha avuto comunque il merito di chiarire la situazione, sia per quanto riguarda i paletti all'interno dei quali deve muoversi il governo giallorosso, sia per quanto riguarda il dilemma di Di Maio ma in realtà di tutto il M5S. Le reazioni degli alleati di governo, in particolare del Pd, ma anche delle istituzioni, a partire dal Quirinale, alla levata di scudi di Di Maio sono state quanto mai eloquenti.

I conflitti all'interno della maggioranza, che riguardino le tasse sulla plastica invise a Renzi o il taglio della prescrizione ostacolato dal Pd, sono in realtà tutti tollerabili, tutti negoziabili, tutti meno importanti della necessità di resistere a tutti i costi pur di evitare le elezioni politiche. La riforma del Mes, come in generale tutto quello che riguarda i rapporti con Bruxelles, no. Lì di negoziabile non c'è proprio niente e ogni conflitto è ad altissimo rischio di immediata crisi di governo.

Il divieto non riguarda solo le forze di governo e la politica. La retromarcia del governatore di Bankitalia Visco è stata infatti impressionante. Il 15 novembre il governatore dichiarava: “I benefici contenuti e incerti di un meccanismo perla ristrutturazione del debito vanno valutati a fronte del rischio enorme che si correrebbe introducendolo”.

Tre settimane dopo, il 4 dicembre, in audizione alla Camera, il giudizio era non corretto ma totalmente ribaltato: “La riforma segna un passo nella giusta direzione. Non cambia la sostanza del Trattato attualmente in vigore”. Siccome qualcosa bisogna pur dire, il governatore spiegava così l'inversione a U: “Il 15 novembre non parlavo della riforma ma di un meccanismo automatico che non è passato”. Giustificazione esile dal momento che il 15 novembre la proposta olandese di rendere obbligatoria la ristrutturazione del debito in caso di richiesta di prestito al Mes era già fuori discussione da mesi.

In concreto, l'ordine di scuderia è evitare conflitti con la Ue. Per questo, e in realtà solo per questo, l'improbabile governo Conte 2 è nato. Revocare in dubbio quel principio, come ha fatto Di Maio con l'offensiva sul Mes, significa pertanto negare in radice la ragion d'essere del governo. Di qui alla fine del governo in questione, questa dovrà essere la stella polare ed è bene che il M5S lo capisca subito.

Qui però emergono lacerazioni nel Movimento più profonde di quelle abiuali, già tutt'altro che secondarie. Di Maio ha ottenuto il plauso unanime di gruppi parlamentari di solito molto meno acquiescenti quando ha lanciato la campagna contro il Mes, e poi di nuovo quando, due giorni fa ha assicurato di voler “andare avanti con questo governo”. In compenso le critiche hanno ricominciato a fioccare quando, poche ore dopo la dichiarazione di fedeltà strenua al governo, è stato diffuso il testo della Risoluzione sul Mes.

I gruppi parlamentari a cinque stelle, chiedono insomma l'impossibile: vogliono che il Movimento mantenga, almeno in parte, l'atteggiamento conflittuale nei confronti della Ue certificato dal loro bellicoso programma elettorale del 2018 ma vogliono anche che non venga messo in pericolo il governo, e di conseguenza la loro permanenza in Parlamento.

Si tratta di un equilibrio sempre precario e sempre a rischio di sbilanciamento e caduta ma non irrealizzabile. Salvo che nei rapporti con la Ue: lì il magine di negoziazione è ridotto all'osso e puramente formale. E' probabile, per non dire certo, che il grosso del M5S se ne farà una ragione e così lo stesso Di Maio. Ma il rischio di defezioni striscianti verso la Lega è in questo caso del tutto realistico.

Secondo alcune voci, del resto, Salvini disporrebbe già di una quindicina di parlamentari 5S pronti a cambiare bandiera quando il leghista deciderà di far cadere il governo, cosa che al momento non sembra avere alcuna intenzione di fare stando alla debolissima opposizione contro la manovra. Ma se c'è un fronte sul quale smottamenti dalle sponde 5S a quelle leghiste è non solo possibile ma prevedibile è proprio quello per il Pd “non negoziabile”: la pace assoluta con la Ue.