Sono crollati i muri, i confini non reggono le masse di uomini che premono e anche le dighe vecchie e nuove non tengono le acque. E’ uno scenario da fine impero, come ricorda con efficacia su Il Dubbio, Sergio Valzania. Ma in realtà gli assedi, le migrazioni e i fenomeni naturali sono sempre esistiti. Ciò che distingue una società sana da una malata è la capacità di farvi fronte.

I romani per affrontare la realtà crearono un ordine e lo chiamarono Ius. Il nostro termine “diritto” lo rende solo in parte. Era Ius la disciplina della proprietà privata , ma anche la sua perimetrazione sul terreno, la sua difesa in guerra e la sua essenza sacra. Il console romano era capace di essere giurista, geometra, guerriero e sacerdote allo stesso tempo e queste attitudini erano intimamente connesse.

L’incuria attuale dell’abitato ( l’urbe) è il riflesso della crisi sociale e dell’incapacità del diritto a regolare la città, intesa come tessuto di relazioni sociali. Il diritto ha perso rispetto allo IUS il suo stretto legame con la totalità del sistema e si è sempre più frazionato.

Ormai è difficile poter parlare di un’unica teoria generale del diritto. Ogni branca, amministrativo, civile e penale, tende a configurarsi come un mondo a sé ed è formata di specialisti. Questo fenomeno è naturale in una società complessa ma talvolta produce esiti disastrosi. Pensiamo a un’opera pubblica qualsiasi, dal Mose alla Tav fino al parcheggio di un piccolo Comune. E’ materia di diritto amministrativo, che è arrivato ad avere, come il civile e il penale il suo codice e i suoi giudici. Però per costruire le opere servono imprese che firmano contratti con imprese cui subappaltano lavori e questa è fondamentalmente una questione di diritto privato, con relativi aspetti processuali. Poi spesso arrivano indagini delle Forze dell’Ordine ed ecco un procedimento penale, con altro processo e altre regole.

Il risultato di questo sommarsi di tre diritti, tre processi e tre giudici è facilmente intuibile e produce in senso letterale, una crisi, cioè un giudizio infinito e contraddittorio perché capita che il medesimo fatto sia valutato lecito dal giudice amministrativo e illecito dal magistrato penale che indaga e interpretato in senso diverso dal giudice civile. A mio sommesso avviso occorre tornare alla capacità di visione sintetica e globale dei romani, che viene espressa bene da un termine inglese aziendale: vision.

Anche nella terminologia politica americana un leader visionary non è un mistico esaltato ma qualcuno capace di vedere le cose in modo prospettico nello spazio e nel tempo. La frammentazione di giurisdizioni e competenze impedisce al nostro ordinamento giuridico e al nostro sistema economico di avere una visione unitaria dei fatti e di trovare soluzioni efficaci. Occorre fare un salto nel futuro, guardando al passato . Senza tornare a Scipione e Muzio Scevola, sarebbe opportuno ripristinare strumenti decisamente più recenti come i CO. RE. CO e le G. P. A.

Erano organismi di controllo preventivo su base rispettivamente regionale e provinciale , formati da giuristi di varia estrazione, che avevano il compito di valutare preventivamente la liceità di un atto della pubblica amministrazione locale. Furono aboliti con l’idea di snellire l’azione amministrativa ( slogan già in uso negli anni 70) e soprattutto con l’intenzione di affidare alla Magistratura la prima e l’ultima parola sulla legittimità di tutto. E’ stata una delle tante scelte sbagliate degli ultimi decenni.

La modesta proposta che formulo è di reintrodurre, in formato attuale e rivisitato, organismi di questo tipo; non elefantiache “conferenze di servizio”, ma organismi di controllo giuridico preventivo ad ogni Ente partecipati anche da magistrati e avvocati che prima di partire con i cantieri stabiliscano quando, come e con quanti soldi fare un’opera pubblica. Insomma, uno scudo preventivo. Ma a tutto campo.