«Chiedo a chiunque metta in dubbio la nostra appartenenza europea: com’è possibile che greci e italiani facciano parte dell’Europa mentre noi veniamo additati come il classico figliol prodigo? Diceva Goethe: “Quello che unisce l’Europa è la cultura, quello che invece la divide sono le idee politiche”. Noi albanesi, cosi come gli altri popoli dei Balcani, ci riconosciamo bene in questa frase del grande scrittore».

Manifesta a chiare lettere il proprio europeismo, lo scrittore, poeta e giornalista albanese Virgjil Muçi. Il suo nuovo romanzo, La piramide degli spiriti ( Besa Editrice), sorta di antipoema incentrato sull’Albania degli anni Novanta, è risultato vincitore del prestigioso Premio Kadare.

Il Presidente del Consiglio europeo uscente Donald Tusk sostiene che «l'Albania merita l'avvio dei negoziati per l'adesione all'Ue» : ritiene che presto ciò potrebbe diventare realtà?

La mia risposta giunge qualche giorno dopo la decisione del Consiglio europeo, che ha negato all’Albania e alla Macedonia del Nord l’apertura dei negoziati per diventare membri dell’Ue. Ormai sappiamo quali siano gli attori principiali di questa decisione che da molti, e non solo dagli albanesi, è considerata “uno sbaglio storico”. E comunque, per gli albanesi e tutti i Paesi e i popoli dei Balcani occidentali un eufemismo, questo, che non si trova in nessun libro di storia o di geografia, usato tuttavia spesso dalle cancellerie e da media ignoranti come se dovesse denominare un ghetto - non ha un altro futuro se non all’interno dell’Ue, e questo non a causa di un capriccio o di una moda estemporanea, ma in quanto appartenenti all’Europa non solo geograficamente, ma anche culturalmente e politicamente. Basta dare un’occhiata alla mappa e ci si rendeconto di come questi popoli abbiano vissuto, nel corso dei secoli, tra le due culture più grandi e antiche dell’umanità, quella greca e quella romana, pilastri della tradizione spirituale europea.

«Nella gente la prima impressione si fissa come qualcosa di indelebile» : quale potrebbe essere la prima impressione di chi si affaccia oggi in Albania?

Agli occhi di uno straniero – e in questo caso non penso a qualcuno che arrivi da oltreoceano, ma anche solo dall’altra sponda del mare, come ad esempio dall’Italia – l’Albania è sempre parsa esotica. Edward Gibbon, lo storico inglese, a metà del 18esimo secolo descriveva l’Albania come un Paese che, nonostante si riesca a scorgere dalle rive italiane, resta più sconosciuto delle periferie più sperdute del continente americano. Tornando alla sua domanda, direi che a fare più impressione è quella sorta di “iperenergia”, spesso caotica, che a volte entusiasma e a volte confonde. In ogni caso, Tirana oggi non è più «un boulevard senza una città», come lo definiva un tempo, con una buona dose di cinismo, lo scrittore sovietico Ilia Ehrenburg, ma una vera e propria metropoli che sta facendo uno sforzo febbrile per salvarsi dall’architettura socialista, mentre allo stesso tempo si muove alla ricerca di un’identità urbana europea e moderna, al pari di ogni altra capitale.

Nel libro trovano spazio, attraverso le parole di alcuni personaggi, fra cui Robert Farka, memorie di un doloroso passato. Quali echi sopravvivono oggi del trascorso regime comunista?

Robert Farka, più che un personaggio, è un fenomeno doloroso, tragico, di una parte della società albanese, perseguitata durante il regime comunista e tuttora alla ricerca di una nuova esistenza in un Paese normale, lontano dal passato e dalle sue reminiscenze. È un idealista, una specie in via di estinzione, che crede in una nuova società, migliore, più libera e ricca, ma il suo idealismo è percepito come ingenuità e di lui si abusa per motivi meschini. Farka crede che non sarà possibile superare il passato né attraverso vendette, né per mezzo di espatri e oblio. Con il loro spirito pragmatico e il bisogno di sopravvivere in una società dove gli ideali sono sostituiti dal culto dei soldi, gli albanesi hanno rigettato il passato regime– marcando una differenza rispetto a molti altri Stati dell’Europa Centrale e Orientale – e si sono proiettati verso il futuro ma in un mondo idealizzato che si incarna nell’Occidente in generale e nell’America più in particolare. In una società ormai povera di ideologie e ideali, l’unico imperativo diventa il denaro. Ritornando di nuovo alla figura di Robert Farka, lo definirei attraverso le parole di Machiavelli, quando sostiene: «Un profeta disarmato non ha un futuro in politica». E lui è proprio quel profeta disarmato.

Sulla democrazia in Albania: «alla fine anche questa, come qualsiasi altra cosa, finirà in una caricatura sui generis». Perché ne è convinto?

Esiste una fatalità nella storia moderna del mio Paese. Nel periodo tra le due guerre mondiali, l’Albania guidata da Ahmet Zog è stata trasformata, nel corso di una notte, da repubblica in monarchia, con un re che, agli occhi degli europei, sembrava uscito da un’operetta viennese. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Albania si è inserita nel campo socialista, dal quale si è separata vent’anni dopo con la convinzione che gli altri Paesi, guidati dall’Unione sovietica, avessero tradito la dottrina marxista- leninista, a differenza di questo piccolo Stato assiepato in un angoletto dei Balcani. In realtà, il comunismo albanese costituiva uno spaventoso ibrido, una sorta di Frankenstein: in poche parole, un mostro generato dal potere personale di Enver Hoxha, dove si intrecciavano pezzetti di marxismo con le peggiori componenti delle autocrazie dispotiche orientali. Per ironia della sorte, anche oggi potremmo creare un “nuovo” modello di democrazia, se al posto delle istituzioni democratiche sostenessimo individui corrotti e malati di potere. Se consideriamo gli ultimi anni, ci accorgiamo che la politica è simile a una pièce teatrale dove il terzo atto inscena una storia sorprendentemente diversa da quella che gli attori hanno recitato nel primo. È per questo che, parafrasando un celebre detto, la politica è una cosa troppo seria per lasciarla soltanto ai politici. Penso che Oriana Fallaci fosse nel giusto quando diffidava dai rivoluzionari, in quanto spesso abbattono i dittatori soltanto per prenderne il posto. La storia tende a essere recidiva.

«Make Albania great again». L'Albania è diventata meta privilegiata di investimenti internazionali. Come ciò ha cambiato la realtà del Paese?

C’è qualcosa di dantesco nella storia albanese di questi ultimi trent’anni, in quello che nel gergo politico e mediatico viene chiamato periodo di transizione. Secondo l’architettura della Divina Commedia, ci troviamo in una sorta di Purgatorio, quindi né all’Inferno – rappresentato dalla dittatura comunista – né nel Paradiso - che per gli albanesi è l’Unione europea. La strada che abbiamo dietro le spalle ha qualcosa di biblico: come gli ebrei dell’antico Testamento, anche noi percorriamo senza sosta il deserto alla ricerca della Terra Promessa, che spesso ci appare come un miraggio. Non sono molto sicuro che l’Albania si sia trasformata in una meta privilegiata per gli investimenti stranieri. Ciò poteva essere vero all’inizio degli anni ’ 90, ma poi buona parte degli investitori, inclusi quelli italiani, non trovando un contesto sicuro e scoraggiati dalla dilagante corruzione, si sono trasferiti in altri Paesi, spesso confinanti con l’Albania Cosi, nolens volens, ci siamo trovati in un sistema che qualcuno, attingendo al gergo della musica folk balcanica, ha chiamato “turbo capitalismo”.

Durante il “monologo di Dionisio” – che, come funzione, ricorda quella del coro nella tragedia greca –, si chiede: «Quando abbiamo commesso il nostro suicidio?». Lei cosa risponderebbe?

Tante potrebbero essere le risposte a questa domanda, delle quali si dovrebbero occupare – in primis ma non esclusivamente – gli storici. Cechov affermava che il compito dell’artista, e in questo caso dello scrittore, consista non nel risolvere i problemi della società, ma nel presentarli nel modo più corretto. È quanto anch’io ho cercato di fare nel romanzo La piramide degli spiriti. A mio avviso, presente e passato fanno parte del nostro futuro, così come, a ben vedere, il futuro è già contenuto dal passato. In ogni caso, come affermava uno scrittore maghrebino, «non dobbiamo permettere che la nostra memoria ferita guidi il nostro futuro».