Un ragionamento incomprensibile, «un caso pressoché scolastico di ragionamento contraddittorio» o, meglio, «di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili». Sono queste le parole con le quali i giudici della Cassazione hanno annullato con rinvio la sentenza di incadidabilità di Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, da sei anni alle prese con la sua battaglia con la giustizia. Perché dopo essere stata per una vita un’icona antimafia, si è vista marchiare a fuoco sul curriculum il più terribile dei sospetti: essere al servizio dei clan della sua terra, quelli che per anni, stando alle cronache, avrebbero tentato di farla fuori e che, invece, per la Dda, sarebbero stati i suoi principali sponsor.

Un sospetto culminato nel 2013 con l’arresto, passando 16 giorni in carcere e 168 ai domiciliari, salvo, poi, essere assolta due volte per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste. Ma nonostante questo, per ben due volte, tribunale e Corte d'Appello l’hanno definita incandidabile. E questo senza che il suo nome comparisse nella richiesta del ministero dell’Interno. «Non posso accettare quella sentenza - aveva spiegato qualche mese fa - e non perché voglia ricandidarmi, ma perché non mi si addebita nulla in quella richiesta di incadidabilità. Ciò che ho fatto in cinque anni è stato duro e impopolare e se lo scopo era concludere un’esperienza amministrativa farlo in questo modo è inaccettabile».

La Cassazione, ora, le dà ragione, perché nel decretare la sua incandidabilità la Corte d'Appello non ha spiegato alcunché. La conclusione, afferma la Suprema Corte, «non si accorda con le premesse» da cui i giudici del secondo grado erano partiti. E la premessa era identica all’argomentazione di Girasole: la Corte si dice, infatti, certa, «che al fine di dichiarare l'incandidabilità degli amministratori travolti dallo scioglimento» occorre che, «legge alla mano, il loro nominativo figuri nella proposta inoltrata a questo fine dal ministro dell'Interno al Tribunale competente». Ma nel chiudere il cerchio del sillogismo, «la Corte d'Appello opera un'imprevedibile inversione - scrive la Cassazione - confermando la dichiarazione di incandidabilità della Girasole», pur riconoscendo che il suo nome «nella proposta e neppure nei documenti finitimi era stato indicato». Contraddittorietà che non trova, nel resto della motivazione, alcuna chiarificazione, secondo i giudici, che hanno rispedito dunque indietro gli atti per un nuovo giudizio.

Quel che emerge dalle aule di tribunale, per ora, dà dunque sempre ragione a Girasole. L’ex sindaca, difesa dall’avvocato Marcello Bombardiere, non sarebbe stata ammanicata con la ‘ ndrangheta, anzi: quella cosca che per la Dda le aveva spianato la strada verso il Comune, in realtà, nutriva un odio feroce per lei. Per l’antimafia l’ex primo cittadino avrebbe «ricevuto il sostegno elettorale della famiglia Arena» e quella condotta votata alla legalità sarebbe stata mera apparenza, sostenuta da quella celebrazione mediatica che, assieme alle numerose intimidazioni subite, aveva fatto di lei un’eroina.

Tutto falso, per la procura. Ma non per i giudici, secondo cui ad essere «infondata» è proprio la tesi della Dda: Girasole, come emerso dalle intercettazioni, era considerata dal clan una nemica e la procura, sviluppando la propria tesi d’accusa, avrebbe commesso «errori grossolani». Tanto che nei piani di boss e gregari c’era tutt’altro che la volontà di farne un proprio punto di riferimento nel palazzo comunale: le intercettazioni, talvolta anche travisate, «rivelano una macchinazione degli Arena, uno strata-gemma per farla cadere ( proprio perché contrariati dall’azione politica della Girasole)».

Il percorso che l’aveva portata all’incandidabilità seguiva lo stesso ragionamento tracciato dalla procura: per il tribunale prima e per la Corte d'Appello poi, era chiara la continuità tra l’ultima amministrazione in carica, guidata da Gianluca Bruno, a maggioranza centrodestra, sciolta per infiltrazioni mafiose ( per lui l’incandidabilità è stata invece confermata), e la gestione di Girasole, ex Pd, rieletta con la carica di consigliere. Eppure, per i giudici che l’hanno assolta, il reato di corruzione elettorale «si è rivelato del tutto infondato, in quanto campato su elementi, quelli offerti dalla pubblica accusa e a prescindere da quelli contrari offerti dalla difesa, inconsistenti se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria» .

Girasole, ora, torna a sperare. «La Cassazione ha accertato quello che diciamo dall’inizio: che non c’è uno straccio di atto che dimostri quello che ha sostenuto la commissione d’accesso - commenta al Dubbio -. Commissione che ho querelato e ora sono in attesa della decisione del giudice. Dopo aver lavorato cinque anni, facendo scelte molto difficili in questo territorio, sentirsi tirata in ballo anche con l’incandidabilità è stato un ulteriore atto d’ingiustizia. Le due sentenze di assoluzione hanno dimostrato chiaramente che nessun atto ha favorito la cosca - aggiunge -, quindi credo che a questo punto si possa chiarire definitivamente che la mia attività amministrativa è stata di contrasto al clan e non il contrario. Questa decisione mi lascia sperare che non tutto è perduto in questa Calabria e che giustizia può essere fatta. Certo, il percorso è duro e in alcuni momenti inaccettabile, perché le accuse sono davvero infamanti, soprattutto per chi ha fatto delle scelte nette e che per questo ha subito quello che ha subito. Mi sono messa contro un potere molto forte, tutti lo sapevano. Ma nella relazione della commissione d’accesso non si distingue tra gli atti della mia amministrazione e quelli dell’amministrazione successiva. Sono stata dichiarata incandidabile senza che mi fosse attribuita la responsabilità di alcun atto. E questo è assolutamente inaccettabile».