Le elezioni in Umbria offrono conferme che dovrebbero interessare tutti, compresi i vincitori.

La prima è che il sistema istituzionale regionale è quello che offre maggiore chiarezza e stabilità. I cittadini votano e la sera delle elezioni si sa chi ha vinto e chi ha perso.

La seconda conferma è che, perché il voto degli elettori abbia questo peso e questo effetto, è necessaria una dinamica competitiva che, nelle regioni, è assicurata dalla corsa per la presidenza. La conseguenza è che, dove c’è competizione, i partiti devono aggregarsi per avere delle chances; da qui l’effetto bipolarizzante che premia chi ha maggior capacità di esibire coesione. Ciò dà chiarezza alla politica. O di qua o di là.

La terza conferma è che, mentre il sistema istituzionale delle regioni è al sicuro, perché ha un aggancio costituzionale ed è incorporato negli statuti regionali, il modello statale è oggi ancora più a rischio di decomposizione. Le elezioni hanno mostrato che la maggioranza al governo del paese è stata penalizzata dal “modello” regionale. La necessità di aggregazione ha fatto schiantare l’alleanza Pd- Cinquestelle e ha certificato, per questi ultimi, una crisi che appare irreversibile. E tanto più irreversibile quanto più si cederà all’abbraccio, oggettivamene mortale, con gli alleati. Quanto può durare questo equilibrio contraddittorio e instabile a livello nazionale?

I costi dell’alleanza di governo, cementata dalla necessità di scongiurare la vittoria degli avversari, non si ripartiscono equamente nella coalizione che sostiene Conte. Il problema si pone soprattutto per i Cinquestelle. Per loro, infatti, delle due l’una: può prevalere una spinta disgregatrice, la spinta della disperazione, e allora è possibile che le stelle si trasformino in schegge, ognuna alla ricerca di un approdo che la faccia sopravvivere allo tsunami delle prossime elezioni; se, invece, prevarrà la spinta dell’orgoglio identitario, si tenterà di recuperare la purezza originaria, ma allora sarà ancora più forte la necessità di distanziarsi dagli alleati.

Quale che sia lo scenario prevalente, si preannunciano ulteriori fibrillazioni nel governo. Le tentazioni transfughistiche, se ci saranno, non si limiteranno alla ricerca di approdi nel perimetro della maggioranza, che dunque potrebbe subire emorragie, accelerando la fine. Le tentazioni identitarie dell’“io ballo da solo”, invece, per funzionare richiederanno rumorose picconate. Con il rischio di esiti analoghi.

Ma anche per i vincitori c’è una conferma. E non mi riferisco solo al trend positivo dei consensi.

La conferma è che, dopo il Popolo delle libertà di Berlusconi, l’Ulivo di Prodi, il Pd di Renzi, quella dei Cinquestelle è l’ennesima parabola che si consuma non appena si arriva a mettere le mani sul governo. I tempi possono essere più o meno brevi ( in proporzione alle capacità dimostrate), ma il respiro è comunque corto. Questa, dunque, è la domanda che i vincitori di oggi, sempre più probabili vincitori di domani dovranno porsi.

Come si fa, in un paese che non ha mai visto un governo repubblicano raggiungere i quattro anni consecutivi di durata, in un paese in cui solo sei esecutivi hanno superato i due anni di esistenza e i restanti 59 hanno vivacchiato mediamente intorno ai 12 mesi… come si fa a mantenere almeno qualcuna delle promesse più importanti che periodicamente hanno fatto trionfare alle elezioni ?

La nostra fast food politics è ormai diventata il cimitero delle grandi palingenesi promesse e delle epopee di riscatto annunciato.

Chissà se arriverà mai un leader che – memore dei lunghi mandati delle varie Thatcher o dei vari Kohl, Blair, Mitterand, Bush, Obama, e chi più ne ha più ne metta – si porrà seriamente il problema ( strutturale) non solo di vincere, ma anche di governare democraticamente… durando.