Sono tornate le rivolte popolari contro il caro prezzi in America latina. Si rivedono le esplosioni sociali violente innescate dall’aumento del biglietto dei mezzi pubblici, come negli anni Novanta. Allora la prima, drammatica, fu il Caracazo del 1989, l’insurrezione dei quartieri più poveri di Caracas che infiammò il Venezuela e si estese come un incendio verso il sud del continente tramortito dalle cure da cavallo, spesso rozze e spietate del Fondo monetario internazionale. Ora si ricomincia.

Nelle ultime due settimane è insorto prima l’Ecuador: una protesta nata contro l’aumento del costo del carburante che ha costretto il presidente Lenin Moreno, prima di rimangiarsi tutto, a trasferire la sede di governo sulla costa per evitare l’assalto al palazzo presidenziale. E poi il Cile: una esplosione sociale che ha dato fuco a mezza Santiago, innescata dall’aumento del biglietto della metropolitana.

In Cile la situazione è tragica, almeno undici persone già sono morte negli scontri. Il governo di Sebastian Piñera ha collezionato errori così grossolani da sembrare voluti per far precipitare la situazione. E’ arrivato a dichiarare il coprifuoco a Santiago, Valparaiso e in altre tre regioni. E’ dalla fine della dittatura di Augusto Pinochet che non veniva dichiarato il coprifuoco. Una misura intollerabile per il Cile uscito dalle galere della dittatura.

Dichiarare il coprifuoco da parte di Piñera è stato come far aleggiare volutamente su chi protesta il fantasma del colonnello. E’ una minaccia pesante capace di scatenare le peggiori paure e di chiudere la strada alla soluzione di un conflitto tutto sommato non impossibile da affrontare, come una protesta contro un caro prezzi.

La tensione a Santiago è altissima. Migliaia di persone, quasi tutti ragazzini sfidano il corpifuoco e l’esercito che ha l’ordine di riportare la calma con 9000 soldati schierati. Si moltiplicano gli assalti ai supermercati, i saccheggi. Nel fine settimana è stata bruciata la torre dell’Enel. Piñera dice: «Siamo in guerra, si tratta di gruppi organizzati per seminare il caos».

Il generale Iturriaga, a capo dell’esercito schierato, gli risponde: “Io non sono in guerra con nessuno”, segno che il caos regna sovrano anche tra chi ha mandato in strada i soldati per riportare l’ordine. I ministri fanno spallucce. Negano si tratti di una rivolta rabbiosa contro una condanna alla povertà che molti cileni, soprattutto giovani, temono sia eterna. Ripetono che un paese che cresce al 2,5% all’anno non è un paese povero. Frase provocatoria alle orecchie degli undici milioni, su diciotto milioni di abitanti, che risultano indebitati. Ci si indebita per studiare, per curarsi, per sopravvivere a Santiago dove in dieci anni ( dati dell’Università cattolica) il costo per la casa è arrivato a crescere del 150% e quello dei salari del 25%.

Un atteggiamento sempre molto arrogante, ma meno criminale, ha assunto di fronte alle proteste il governo del presidente Lenin Moreno a Quito. Lì, sulle alture della capitale, dopo aver marciato attraverso il paese incolonnati come un esercito civile appiedato, decine di migliaia di indigeni - ai quali si sono uniti i gruppi studenteschi della capitale – sono arrivati di notte e, a sorpresa, hanno sfondato i cordoni della sicurezza che circondavano il Parlamento. Sono entrati in Aula gridando «Fuori Moreno!».

Gli scontri sono durati per ore nelle strade del centro storico. La mobilitazione contro il governo è nata in opposizione a un pacchetto di leggi di cui è diventato simbolico l’aumento del prezzo della benzina, quasi raddoppiato. Le misure fanno parte dell’applicazione di un accordo firmato di recente tra Lenin Moreno e il Fmi. I primi scioperare sono stati i tassisti, i camionisti e alcuni sindacati dei trasporti privati.

Poi è montata la protesta nelle comunità indigene e nelle università. Moreno è scappato via dal suo ufficio scortato da militari e ha trasferito la sede del governo nella città costiera di Guayaquil, possibilità contemplata dalla Costituzione, ma attuabile sono di fronte a scenari di crisi gravissima.

Ora che la rivolta è rientrata perché il pacchetto è stato cancellato, Moreno grida al golpe e accusa il suo predecessore Rafael Correa, suo ex mentore poi tradito, di essere il regista della crisi. «Correa sta usando settori indigeni politicizzati per capovolgere i risultati elettorali e buttarci fuori dal governo” accusa Moreno». Correa, ex presidente filochavista che ha ambito invano a diventare l’erede della leadership continentale della sinistra latinoamericana, chiede elezioni subito. Sa che il consenso attorno alla sua figura sta rimontando e che ora un candidato da lui appoggiato potrebbe probabilmente vincere. Moreno è stato il vicepresidente del suo attuale nemico dal 2007 al 2013 ed è stato eletto al suo posto.

Giurava di voler portare avanti quella che Correa chiamò la “Rivoluzione cittadina”, la rivisitazione in chiave filochavista delle istituzioni ecuadoregne. Poi, considerato il tramonto dei governi degli alleati del Venezuela chavista in America latina, Moreno ha deciso di riposizionarsi. Per far questo aveva bisogno di smarcarsi dal suo antico protettore. L’ha fatto. Sembrava esserci riuscito. Il precipitare della crisi ha rimescolato le carte.