Paolino Bonaiuti è stato un formidabile placcatore, un rugbista politico come non se ne erano mai visti. Silvio fuggiva sull'out e partiva per la tangente verso la meta, pronto a qualunque gaffe in qualsiasi occasione, temerario e sfrontato nemico dei politici di professione e della politica politicante, e Bonaiuti lo marcava, controllando, inseguendo, governando un pacchetto di mischia di fedelissimi per disinnescare per tempo miccette e tric- trac parlamentari, avversari rognosi, Giuda in servizio permanente, notizie indigeribili o dannose.

Aspettava sempre il momento giusto per segnare il punto. In camera caritatis, Paolino era molto più che consigliere, diciamo una sorta di Richelieu: «Silvio attento, si sta per scatenare questo e quello, ripensaci, mi hanno avvertito, fai stare zitto quello, aggiustiamo qui, modifichiamo là, sarebbe meglio se dicessi...».

Bonaiuti era una guancia della tenaglia, l'altra era Gianni Letta. Placcare, smussare, incollare, svicolare, allertare: un lavoraccio ancor più accio con un tipo come il Cavaliere, mago dell'improvvisazione senza rete, barzellettiere fuori luogo, maschilista impenitente, adulatore delle rotondità, tranne che delle “culone inchiavabili”. Una vita spericolata e al cardiopalma, quella di Paolino Bonaiuti portavoce.

Giornalista di razza, vicedirettore del Messaggero, poi una ventina d'anni di Parlamento e di Forza Italia, ma soprattutto fiorentino gentile, educatissimo, colto e sinceramente pluralista, doti che sembrano evaporate in questi anni populisti e beceri. Se n'è andato a 79 anni, rimpianto da amici e avversari, sofferente e critico di fronte al “fascismo aggressivo grillino” che proprio non sopportava.