Ne ha uccisi più di Ted Bundy e di Gary Leon Ridgway, più di Jeffrey Dahmer il “mostro di Milwaukee e di William Bonin, l’ “assassino dell’autostrada”.

Nessun serial killer d’oltreoceano può vantare l’efferato curriculum del 79enne Samuel Little, reo confesso di 93 omicidi commessi dal 1970 al 2005. Inizialmente, anche a causa della sua teatralità, non lo ritenevano credibile, il solito mitomane, si dicevano le autorità del carcere californiano dove sconta l’ergastolo dal 2014 per l’assassinio di tre donne di Los Angeles. Prima di allora era stato arrestato per una tentata rapina in un negozio di mobili con una condanna a tre anni.

Ma i suoi racconti erano vividi, pieni di particolari, di dettagli significativi. È un ranger del Texas esperto di cold case, James Holland, che segnala per primo le sue ricostruzioni ai federali: oltre 700 ore di colloqui ritenuti «più che verosimili» ed “estorti” grazie al talento di negoziatore e a «decine di tranci di pizza e litri di Dr Pepper» di cui Little va ghiotto. La luce si accende anche se non è ancora sufficiente per riaprire i dossier di tutti quei vecchi omicidi dimenticati da Dio e dagli uomini.

Intanto i media cominciano a interessarsi alla vicenda, la scrittrice e giornalista del New York Times Jillian Lauren ottiene diversi incontri in carcere che documenta in in un bellissimo reportage pubblicato lo scorso dicembre in cui Little parla a ruota libera della sua vita balorda, del primo furto di bicicletta nel 1956, della madre prostituta che lo ha abbandonato su una strada sterrata, dell’infanzia trascorsa a casa della nonna paterna, della solitudine, ruvida legge della strada, del suo albero genealogico, della certezza di essere «un parente di Malcolm X». E soprattutto della folle frenesia che lo accompagna fin da quando era un ragazzino che idolatrava Sugar Ray Robinson e si infilava i guantoni per salire sui ring sudici dell’Ohio e del Texas e tutti lo chiamavano the mad machine, “la mitragliatrice”, a causa della velocità dei suoi colpi ma anche per i comportamenti furiosi, incontrollabili.

Quando mette a fuoco le sue vittime sembra ricordare ogni cosa, indugia nel racconto, si commuove, dice di essere «il diavolo» ma che all’epoca si sentiva come un «demone della misericordia incaricato di eutanasia». E disegna, centinaia di schizzi, molti dei quali identikit delle persone a cui ha tolto la vita eseguiti con maestria: «Nella vita ho imparato a fare due sole cose: combattere e disegnare, ora posso solo disegnare e sono così bravo da creare il buio e la luce come e quando voglio» .

All’inizio del 2019 l’Fbi si butta a capofitto sui faldoni di Holland e inizia a indagare sul serio, a scavare nel passato, a incrociare le informazioni, a confrontare le tracce genetiche trovate sui luoghi del crimine con il Dna di Little. Un vaso di Pandora si apre davanti agli occhi degli investigatori: tutto torna, tutto coincide, nessuna vanteria, al contrario una precisione nel riordinare quei frammenti lontani davvero sorprendente per un uomo di quell’età avanzata.

Fino ad ora sono almeno cinquanta le vittime accertate ma è molto probabile che, alla fine, il macabro conteggio coinciderà con le iperboliche confessioni di Little; l’Fbi ha istituito un database e aperto una pagina ad hoc sul suo sito ufficiale in continuo aggiornamento.

Le prede preferite erano le donne, quasi tutte figure borderline: prostitute, tossicodipendenti, homeless, ragazzine scappate di casa, spesso cadaveri senza nome o persone scomparse da decenni prive di un corpo che ne certificasse la morte. Nessuna arma però, né pistole, fucili o coltelli: l’ex pugile, la “mitragliatrice” sa uccidere una persona a mani nude strangolando o rompendo l’osso del collo, non ha bisogno di infierire, di oltraggiare, è capace di soffocarti senza lasciare segni sul collo. Durante una conversazione con Jillian Lauren le mostra la tecnica e la «semplicità» con la quale è in grado di «rompere un osso ioide».

Era convinto che nessuno lo avrebbe mai catturato perché nessuno si sarebbe mai interessato ai destini di quelle donne che vivano ai margini della società: «Non ho mai ucciso senatori, governatori o giornalisti famosi, sono rimasto in periferia» racconta sfrontato.

All’epoca molte morti furono liquidate come “accidentali”, principalmente dovute a overdose; in quegli anni un fiume di crack attraversava l’America, si insinuava come un veleno nei ghetti di New York, Los Angeles, Chicago, Baltimora, spappolando un’intera generazione; trovare una ragazza “di strada” morta per soffocamento era la norma come lo era chiudere le indagini in fretta e furia.

Nella lunghissima lista delle atrocità elencate da Little ogni tanto il racconto illumina una scheggia di quelle vite falciate prima del tempo, come se alcuni omicidi gli avessero lasciato un segno più marcante di altri, come se nel ricordo, icastico e ossessivo di un’esecuzione potesse inconsciamente espiare tutte le altre.

C’è Marianne «una ragazza dall’aria alternativa, forse una hippie» conosciuta in un bar di Miami nel ’ 73 e ammazzata a sangue freddo nella sua automobile, o Sarah, un’afroamericana di 35 anni strangolata in un motel di Las Vegas nell’ 84, o Denise Brothers 38 anni, tossicodipendente, madre di due bambini, soffocata con un cuscino a Odessa ( Texas) nel 1994, quella notte i suoi piccoli ( Dustin 9 anni e Damien, 12) erano in casa, nascosti sotto il letto quando Little ha strangolato Denise. Nel ’ 96 Dustin, che ha avuto un’adolescenza devastata da quel lutto, rimane ucciso in una rissa di uno strip- club di Miami nel ’ 96.

L’elemento patologico appare evidente nel modo in cui parla delle donne che da bambino credeva fossero «angeli» e dal «piacere intenso» che provava dopo averne uccisa qualcuna: «Era una sensazione bellissima, era un paradiso, come andare a letto con Marylin Mondroe». Quando frequentava le scuole elementari una sua compagna di classe «dai boccoli rossi», gli toccò il collo e lui ebbe una reazione violenta picchiandola con forza: «La vivevo come una provocazione, un’umiliazione».

Scorrendo il catalogo del diavolo viene una vertigine, una colonna infame che ricorda le lapidi delle vittime di guerra per quanto fitta di nomi e cognomi: Carol Linda Alford, Audrey Nelson, Guadalupe Apodaca, Anna Stewart, Mary Jo Peyton, Rose Evans, Jane Doe, Patricia Mount, Melinda LaPree, Daisy McGuire, Rosie Hill.

Come spiega Holland al network televisivo Cbs, «Sammy è un uomo dalla grandi capacità intellettuali con una memoria fotografica che definirei fenomenale, è in grado di ricordare la disposizione esatta delle tombe di un cimitero visitato trenta anni prima o il colore del tetto di una chiesa che ha visto una sola volta in vita sua».

Quando si concentra nel visualizzare la dinamica di un vecchio omicidio o nell’individuare l’anfratto, il campo, il terrapieno, la palude dove ha seppellito un corpo «si prende il volto tra le mani e comincia a far volteggiare lo sguardo dal basso verso l’alto quasi fosse in uno stato di trance, disegna con nell’aria il volto della vittima con larghi gesti, poi all’improvviso mi fissa negli occhi e può partire il racconto».

Nei lunghi colloqui con Jillian emerge la personalità complessa di Little, la reporter del New York Times riesce a intuire quel tratto famelico e seducente che doveva guidare la sua gioventù e spingere molte donne a gettarsi tra le sue braccia senza troppi perché: «Ha pochi capelli bianchi sulla testa semipelata, le macchie di vecchiaia gli scoloriscono la pelle e gli danno l’aria di una lucertola muta. Ma dai suoi occhi riesco a vedere l’uomo che è stato una volta: una centrale elettrica di un metro e ottanta con guantoni da boxe sulle mani, un uomo forte e magnetico. Riuscivo ancora a distinguere gli zigomi virili, gli occhi verde- blu- chiaro e il bel viso che un tempo avrebbe potuto mettere a proprio agio le sue vittime, lo slang morbido della Georgia e la parlata rassicurante».

Oggi Samuel Little è un uomo sulla soglia degli ottant’anni che finirà la sua vita tra le sbarre. Ha evitato la pena di morte in cambio della sua collaborazione con i federali e soprattutto con Holland che chiama «Jimmy» e definisce «un amico».

Il ranger texano esperto di cold case ricambia le attenzioni, oltre ai tranci di pizza e alle Dr Pepper gli porta spesso carne ai ferri e frappè al cioccolato: «A volte mi sembra uno di famiglia, una persona per la quale provo un certo affetto ed è una cosa molto strana visto che stiamo parlando del più mortifero serial killer della storia degli Stati Uniti».

Un killer molto malridotto, che si sposta nei padiglioni del carcere sulla sedia a rotelle e sotto le scarpe ortopediche bianche immacolate nasconde l’amputazione di due dita per via del diabete; dal petto come una lama spunta invece la cicatrice di un’operazione al cuore subita qualche anno fa.

È ancora convinto di essere il diavolo e non sembra avere grandi rimorsi per la ferocia dei suoi crimini, afferma di provare «gratitudine» nei confronti di chi ha ucciso: «Pensare a loro, al dolore che ho provocato è l’unica cosa che mi sentire vivo».

Però è sinceramente dispiaciuto di aver messo nei guai degli innocenti, un risvolto che ha permesso al senso di colpa di aprire una piccola breccia nella sua mente: «Sicuramente qualcuno è stato condannato al mio posto per i miei omicidi, di questo mi dispiace molto, spero che le mie ricostruzioni potranno farli uscire di galera. E magari, quando verrà il mio giorno, il buon Dio si rocorderà di questo e sarà un po’ meno severo con me».