Saranno tre settimane decisive dicono fonti informate del Congresso: i repubblicani si preparano infatti a fronteggiare l’uragano impeachment che entro novembre potrebbe abbattersi sul presidente Trump. Riuscirà il Grand Old Party a fare quadrato attorno al tycoon impedendo la procedura di destituzione?

La compattezza del partito, però, sostengono alcuni repubblicani, viene messa a dura prova ogni giorno, con le dichiarazioni del presidente e le continue rivelazioni sulla telefonata che ha portato i democratici alla richiesta di impeachment, quella del 25 luglio con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, al qualeTrump chiese di indagare su Joe Biden e il figlio.

L’inquilino della Casa Bianca sa di poter contare al Senato su almeno 51 senatori sui 53 della maggioranza anche se la Camera, a maggioranza democratica, dovesse farlo. Per essere rimosso conta solo il voto finale del Senato, dove sono necessari i due terzi dei membri, almeno 67 senatori sui 100 dell’aula. A Trump sarà sufficiente avere 34 voti a favore per portare avanti il primo mandato e concorrere per la riconferma nell’autunno 2020. Qui entrano in gioco i destini politici dei senatori: chi si giocherà la riconferma, non voterà mai contro il presidente in carica. Trentasei repubblicani arrivano da Stati nei quali Trump è molto popolare e quindici di loro, il prossimo anno, cercheranno di essere riconfermati. Altri quindici provengono da Stati nei quali il presidente è in minoranza, ma qui solo in quattro concorreranno per la rielezione.

Il presidente può permettersi di perdere fino a diciassette senatori, e nonostante questo evitare la rimozione. Anche se le ultime esternazioni hanno trovato molti repubblicani freddi, il partito sembra deciso a mantenere la compattezza. Alla Camera continua il pressing sulla Speaker, Nancy Pelosi, perchè porti l’aula a esprimere un voto iniziale. L’invito lanciato dalle pagine del Washington Post dell’ex senatore repubblicano Jeff Flake a voltare le spalle a Trump e a «salvare l’anima del partito» non ha raccolto consensi. I conservatori sanno che il presidente è ancora l’uomo forte del partito, come confermano i dati sulle donazioni alla sua campagna: nel trimestre luglio- settembre sono stati raccolti 125 milioni di dollari, più di ogni altro presidente nella storia americana. Per fare un conronto, nello stesso periodo del suo mandato ( trimestre luglio- settembre 2011), il presidente democratico Barack Obama aveva raccolto poco più di 70 milioni.

Attaccato dai media, accerchiato dagli avversari, Trump sta concentrando su di sè tutta l’attenzione, finendo per galvanizzare i suoi sostenitori. La fiducia si traduce in donazioni e le donazioni in un messaggio al partito: mollare l’uomo forte sarebbe un errore.