Se finora tutta la giusta attenzione da parte dei mass- media si è concertata sui presunti episodi di abusi nei confronti dei detenuti da parte degli agenti penitenziari, altre violenze vengono perpetuate nei confronti di alcune categorie di detenuti. Violenze però che consistono nelle misure afflittive che sulla carta non vengono contemplate. Parliamo ancora del carcere di Tolmezzo, ma questa volta sulla figura degli internati, criticità che Il Dubbio ha esposto più volte.

Ancora una volta è il rapporto dell’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà a mettere nero su bianco le numerose problematiche che affliggono gli internati al 41 bis. Parliamo della visita da parte della delegazione composta dall’intero Collegio del Garante, Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, e da un membro dell’Ufficio, Alessandro Albano. Una visita finalizzata a verificare alcune specifiche situazioni, con particolare riferimento alle condizioni di effettività della misura di sicurezza di “assegnazione a Casa di lavoro” relativamente a persone internate al 41 bis.

Ricordiamo che in teoria l’internato non è un detenuto, ma è colui che ha finito di scontare la pena, ma per motivi di sicurezza non viene rimesso in libertà e, nonostante abbia finito di scontare il regime duro, di fatto, ci rimane. Gli internati devono, quindi, scontare la misura di sicurezza in una “casa lavoro”. Come dovrebbe essere in teoria il carcere di Tolmezzo. Tale situazione è stata già oggetto di attenzione da parte del Garante nazionale.

Il Garante ritiene infatti, come ha espresso anche nella Relazione al Parlamento 2019, che è «l’istituto in sé della misura di sicurezza detentiva in regime ex articolo 41- bis – in particolare l’assegnazione alla “Casa di lavoro” – a suscitare dubbi sulla sua realizzabilità e sensatezza. Rischia, infatti, di configurarsi come un prolungamento anomalo del regime detentivo speciale, la cui incisività sul principio costituzionale della finalità risocializzante della pena acquisisce ulteriore peso negativo nei casi in cui essa si colloca temporalmente al termine di pene temporanee già scontate in tale regime».

Nell’Istituto di Tolmezzo le sette persone internate sono allocate in una sezione all’interno del Reparto del 41 bis. Teoricamente è anche una casa lavoro, fondamentale per gli internati, in maniera tale che il magistrato di sorveglianza possa decidere o meno la cessata pericolosità. Il lavoro, infatti, è un elemento utile per la valutazione.

Però, come scrive il Garante nel rapporto, c’è uno sviluppo, in negativo, della situazione all’interno dell’Istituto, con una Casa di lavoro che non è in grado di garantire né il lavoro, né una prospettiva di reinserimento. A seguito del nubifragio che ha devastato la serra e la riduzione delle mercedi, le attività lavorative si sono notevolmente ridotte.

«Una situazione – scrive il Garante nel rapporto - in cui la misura di sicurezza incentrata sul lavoro viene svolta di fatto senza attività lavorativa è inaccettabile e rende la condizione delle persone internate del tutto analoga a quella del persone detenute in regime detentivo del 41 bis». In questo modo risulta quindi difficile capire quale sia la differenza tra le persone detenute e quelle in misura di sicurezza. Una sovrapposizione che si evidenzia maggiormente anche per l’impossibilità, da parte degli internati, di accedere alle licenze.

«Si traduce così – scrive il Garante - in una falsificazione linguistica per cui le persone sono definite come internate, ma sostanzialmente restano nelle stesse condizioni di quando erano detenute, essendo sottoposte allo stesso regime e alle stesse regole, con l’esclusione da ogni beneficio penitenziario».