«Oggi mi rendo conto che l’arresto votato dalla Camera fu una grande strumentalizzazione voluta all’epoca dalla Lega per incidere sul governo Berlusconi». Poche ore dopo la sentenza di proscioglimento per prescrizione dei reati, Alfonso Papa tira le somme di dieci anni di «sofferenza» e di «gogna». Dieci anni passati nelle aule di giustizia, dopo 157 giorni di custodia cautelare, tra carcere e domiciliari, una prima condanna a quattro anni e mezzo e l’epilogo di mercoledì sera, che ha chiuso la vicenda per l’ex parlamentare del Pdl.

«Avrei potuto fare questo processo da uomo libero», racconta al Dubbio, sostenendo quella che per lui, ormai, sono certezze: il voto del 20 luglio 2011 fu soltanto una manovra contro Silvio Berlusconi. E la P4 «non è mai esistita». Papa, ex magistrato, era finito al centro dell’indagine sulla cosiddetta “Loggia P4”, dei pm napoletani John Henry Woodcock e Celeste Carrano, con l’accusa di favoreggiamento, concussione e rivelazione di segreto d’ufficio.

Ma l’accusa gli aveva contestato anche l’associazione a delinquere, esclusa sia dal gip sia, successivamente, dalla Cassazione e dal Tribunale del Riesame di Napoli, che avevano confermato l'insussistenza degli indizi in relazione a quel reato. «Non c'erano i presupposti per l'arresto - scrivevano i giudici del Riesame - perché non esistevano presupposti per contestare il reato dell'associazione a delinquere».

Il quadro disegnato dai pm era invece a tinte fosche: per i magistrati, si trattava di un’attività di dossieraggio clandestino per gestire e manipolare informazioni segrete o coperte da segreto istruttorio, anche con lo scopo di controllare appalti e nomine. L’indagine riguardò anche il faccendiere Luigi Bisignani e il sottufficiale dei carabinieri di Napoli Enrico La Monica. Ma un pezzo dell’inchiesta arrivò fino al generale della Finanza Michele Adinolfi, in uno stralcio per il quale gli atti finirono a Roma per competenza, per poi essere archiviati nel 2014.

Papa fu allora espulso dall’Associazione nazionale magistrati «per discredito alla magistratura» e fu il primo, nella storia dell’associazione, a subire una decisione così drastica. Così come fu il primo, dopo 30 anni, a vedersi votare l’autorizzazione all’arresto. Il primo grado di giudizio si concluse il 22 dicembre 2016, quando il Tribunale di Napoli lo condannò a 4 anni e 6 mesi di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per le accuse di induzione indebita e istigazione alla corruzione, assolvendolo dall’accusa di favoreggiamento e dichiarando prescritta quella di rivelazione di segreto d’ufficio.

Bisignani, invece, patteggiò una condanna ad un anno e sette mesi, chiudendo subito la sua vicenda. Mercoledì, infine, è arrivata la sentenza della Corte d’Appello. «Dopo l'esperienza vissuta - spiega oggi l’ex deputato - credo che l'abuso della custodia cautelare sia un momento di grande sbilanciamento del sistema e che purtroppo vi è un rapporto da rifondare completamente tra magistratura e politica».

La decisione della Corte d’Appello di Napoli, per l’ex deputato, rappresenta un atto di «giustizia», anche se tardivo. «Devo ringraziare tutti quelli che mi sono stati vicini e i miei avvocati, Carlo Di Casola e Giuseppe D’Alise - racconta - Oggi guardo avanti con fiducia. Questi dieci anni sono stati di grande solitudine e grande dolore, ma anche di speranza e fiducia nella verità».

Dopo l’autorizzazione all’arresto, spiega Papa, diversi colleghi si sono però pentiti della loro scelta, tornando sui propri passi e chiedendo scusa per quel voto, che gli costò 103 giorni a Poggioreale e quasi due mesi di domiciliari. «Mi hanno chiesto scusa racconta - e oggi appare chiaro quello che successe quel 20 luglio del 2011: il voto in parlamento andò in maniera assolutamente svincolata dai fatti che emergevano dall’indagine, ma fu dettato esclusivamente da logiche e interessi partitici».

La Loggia P4, continua a dire, «non è mai esistita. La Cassazione già nel settembre del 2011, quando io ero ancora in custodia cautelare in carcere, disse in sede cautelare che questa era un’ipotesi che mancava di riferimenti e di riscontri. Successivamente la magistratura giudicante ha messo in evidenza tutta una serie di elementi che mettevano in grande crisi quella che era l’idea iniziale del pm».

Dopo la pronuncia dei giudici di Napoli, anche Bisignani ha commentato la vicenda, spiegando di aver patteggiato «per gravi motivi familiari e lo rifarei mille volte nonostante l’enormità di alcune accuse - dice all’AdnKronos - Mi dispiace che mia madre non ci sia più. A quasi 90 anni aveva subito una perquisizione corporale alla ricerca di floppy disk. Ovviamente chiederò la revisione. La giustizia, come mi ha sempre insegnato il presidente Andreotti, va sempre e comunque accettata».

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