Mezzo secolo di vita politica bevuto in un sorso. Intrecciando  passione e ambizione, devozioni e tradimenti, coraggio e opportunismo.

E annusando sempre l’aria del cambiamento da vero segugio qual era, capace di giravolte improvvise, capriole, acrobazie cambi di rotta che hanno puntualmente spiazzato alleati e avversari. Non da freddo e cinico calcolatore quale non è mai stato.

Lui era di un’altra razza, seguiva l’istinto, amava la battaglia, si tuffava nella mischia come un «Don Giovanni della politica» per citare le parole dell’amico e collega Philippe Seguin. E non aveva paura di capitolare, perché dietro ogni disfatta c’è la luce appagante della rivalsa.

Tra cadute e resurrezioni ha stretto milioni di mani, gli abbracci, le pacche sulle spalle, i bagni di folla tra i contadini, gli operai, i piccoli commercianti, tutto il modesto Pantheon della “Francia profonda” che ha amato in modo viscerale diventandone l’interprete più credibile. Jacques Chirac è morto ieri a 86 anni ricevendo un tributo unanime dai leader mondiali che lo omaggiano come un gigante della politica, uno statista al pari di De Gaulle e Mitterrand.

Una bella rivincita per chi è stato vittima per anni della sua stessa caricatura: dicevano che era un ignorante, che amava le birre ghiacciate e i film western, divoratore telefilm polizieschi e di testine di vitello nelle sagre paesane; quando la gauche caviar ( ma anche le élites golliste e liberali) parlava di lui inarcava il sopracciglio, storceva la boccuccia, arricciava il naso, lo liquidava con sufficienza. E invece non sapevano ( o non volevano sapere) che “Jacquot” era un esperto di arte e civiltà orientali, un collezionista di libri antichi, un appassionato di poesia, solo che non frequentava i salotti del quartiere latino, le confraternite letterarie, le gallerie d’arte, i cenacoli soffocanti e autoreferenziali della cultura con la “c” maiuscola.

La sua storia, la sua corsa sfrenata nell’arena del potere è una piccola biografia della nazione. Una vicenda che inizia in Corrèze, regione povera e rurale della Francia centrale. Come ricorderà più avanti negli anni la passione civica gli venne trasmessa dal nonno maestro elementare, repubblicano e massone.

Nel dopoguerra, appena ventenne, era un militante comunista, vendeva porta a porta l’Humanité dimanche, partecipava alla campagna contro l’arma nucleare americana, proprio lui che 50 anni dopo da presidente subì una contestazione planetaria per gli esperimenti atomici di Mururoa.

La politica gli piace, ma non ancora abbastanza; con i suoi modi schietti e guasconi, il sorriso largo, il fisico da attore di Hollywood è in cerca di emozioni forti, vuole viaggiare, conoscere il mondo. Si imbarca come marinaio su un nave per gli Stati Uniti, attraversa in lungo e in largo quell’immenso paese e alla fine approda a New Orleans, ex colonia francese, perché va pazzo per il jazz. Scrive anche un articolo sul Times Picayune, il giornale locale, vantandosi di essere amico  di Cab Calloway e Duke Ellington, circostanza che non è mai stata confermata ma in fondo che importa?

Il periodo americano non durerà molto, la famiglia lo fa tornare in patria, destinazione Parigi. Si iscrive nella prestigiosa facoltà di Science Po, poi il passaggio obbligato dell’Ena (la scuola nazionale di amministrazione che ha fabbricato l’intera classe dirigente francese).

Nel frattempo il gollismo ha preso il posto del socialismo, ammira il generale De Gaulle e diventa un “giovane lupo” del primo ministro George Pompidou per il quale nutre una sincera devozione. Nel 1967 viene eletto in Asssemblea nazionale nella sua Correze e a 34 anni è nominato viceministro del lavoro. Passa indenne il ’ 68 e il movimento studentesco che travolge il Generale e, sempre sotto l’egida di Pompidou, fa la spola tra vari ministeri fino a quando, tra un rimpasto e l’altro approda all’agricoltura come ministro.

Alla morte prematura di Pompidou sale sul cavallo del liberale Valery Giscard d’Estaing voltando le spalle al compagno di partito e gollista Chaban- Delmas. I suoi gridano al «tradimento» ma lui, intanto, si fa nominare premier. Un ruolo che non apprezza particolarmente, specie sotto la guida di un Capo di Stato asfissiante e azzimato come Giscard. Due anni dopo, nel ’ 76, si dimette e ritorna nell’orbita gollista creando l’Rpr, vera e propria macchina elettorale che lo proietta all’Hotel de ville di Parigi di cui diventa sindaco.

Nella capitale crea un sistema politico ramificato e clientelare che lo porterà a difendersi più volte in sede giudiziaria, subendo anche una condanna per lo scandalo degli impieghi fittizi agli amici e agli amici degli amici.

Le presidenziali dell’ 81 segnano il trionfo di Mitterrand con la sua Union de gauche e la fine di Giscard; anche Chirac è candidato, arriva terzo, con il 18% ma sarà lui il leader dell’opposizione. Nel 1986 i gollisti vincono le legislative e, a 12 anni di distanza, è primo ministro per la seconda volta. Inizia una faticosa fase di coabitazione con il machiavellico Mitterand che culmina con l’umiliante sconfitta alle presidenziali del 1988.

In molti a quel punto lo davano per spacciato, sul viale del tramonto, travolto dalla sua stessa ambizione e bulimia politica. Anche perché in Francia sta nascendo l’astro di Eduard Balladur che trascina i gollisti a una schiacciante vittoria nelle legislative del ’ 93. Mitterrand, gravemente malato non ha eredi di spicco, per le presidenziali del ’ 95 Balladur è dato vincente senza margine di errore da tutti i sondaggi.

Chirac però non ci sta, vuole candidarsi lo stesso malgrado nel suo entourage tutti lo sconsiglino. Decisivo l’incontro con il sociologo di area comunista Emmanuel Todd il quale, in un’iniziativa elettorale, gli si avvicina e gli dà un suggerimento: «Balladur è un liberista sfrenato e questo non può piacere ai francesi, recupera le radici popolari del gollismo e punta sulla “frattura sociale”, vedrai che diventerai il prossimo presidente». E così fu.

I suoi due mandati sono costellati di alti e bassi, da un imponente movimento di contestazione sindacale, dalla sciagurata dissoluzione dell’Assemblea nazionale che riporta la sinistra a Matignon; sono gli anni della coabitazione con Lionel Jospin, premier con il quale in modo inaspettato costruisce un eccellente rapporto.

Ma le luci prevalgono sulle ombre; nel 2002 è rieletto con un astronomico 82% nella sfida con lo spauracchio Jean Marie Le Pen, la sinistra, in massa invita a votare per lui che diventa un involontario baluardo repubblicano e democratico contro l’ascesa della destra radicale. È però con l’opposizione, feroce e determinata alla guerra in Iraq e all’amministrazione di George W. Bush che acquisisce la statura di un leader planetario. La sua politica estera è segnata dalla ragionevolezza e dalla lotta per un mondo multipolare spesso in opposizione all’atlantismo delle cancellerie occidentali.

Per questo è stato un politico molto amato e rispettato nel mondo arabo Celebre il suo viaggio in Cisgiordania in cui si scaglia contro i militari israeliani che gli impediscono di ricevere il tributo di migliaia dei palestinesi che lo acclamavano per le strade. «Sono il più filo arabo degli amici di Israele», amava ripetere a chi gli chiedeva la sua posizione sull’eterna crisi mediorientale. Una formula che riassume alla perfezione lo stile e la sostanza di Jacques Chirac, il gollista dai mille volti.