Fino al 1993 la Costituzione stabiliva che nessun membro del Parlamento poteva essere sottoposto a procedimento penale senza lautorizzazione della Camera di appartenenza. Le origini dellistituto risalivano nel tempo e si collegavano allesigenza di evitare che iniziative giudiziarie persecutorie o pretestuose potessero interferire con il corretto funzionamento della funzione legislativa, incidendo sulle maggioranze parlamentari o impedendo la partecipazione alle sedute di singoli parlamentari. Col tempo però lautorizzazione a procedere si era trasformata in un vero e proprio privilegio corporativo che assicurava ai parlamentari una immunità penale pressoché assoluta: in uno scambio di reciproci favori tra le varie forze politiche, lautorizzazione a procedere non veniva mai concessa, sino al punto da negarla anche in caso di reati ad esempio lomicidio colposo a seguito di incidente stradale in cui non era ravvisabile alcun sia pur remoto fumus persecutionis. Anche a seguito della dirompente Tangentopoli dei primi anni Novanta del secolo scorso, che aveva coinvolto decine di parlamentari e ministri, la legge costituzionale n. 3 del 1993 ha tempestivamente e profondamente modificato listituto dellautorizzazione a procedere previsto dallarticolo 68 della Costituzione. Fermo restando il fondamentale principio che i membri del Parlamento, a tutela della piena libertà e agibilità politica, non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nellesercizio delle loro funzioni ( qui vengonoin gioco soprattutto i reati di ingiuria e diffamazione), la preventiva autorizzazione a procedere è stata abolita. Da allora il magistrato può iniziare il procedimento penale senza alcuna autorizzazione della Camera alla quale il parlamentare appartiene. Forme di autorizzazione intervengono in un momento successivo, a tutela della libertà del singolo parlamentare di svolgere le proprie funzioni e quindi in ultima analisi a tutela del corretto funzionamento del Parlamento nel suo complesso. Da una parte sta lesigenza della giustizia di compiere gli atti necessari allaccertamento dei reati contestati al parlamentare, dallaltro vi è linteresse del Parlamento di tutelare i propri rappresentanti da ingerenze e limitazioni della libertà personale che potrebbero ostacolare lesercizio della funzione legislativa. Il contemperamento tra esigenze della giustizia e tutela dellattività parlamentare si è tradotto in una disciplina costituzionale che sottopone alla autorizzazione della Camera di appartenenza gli atti di perquisizione personale o domiciliare, nonché larresto o altre forme di privazione della libertà o detenzione del parlamentare, salvi i casi di arresto in flagranza di reato e di privazione della libertà in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna. Infine lautorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. Ne emerge un quadro da cui risulta che la Costituzione ha riservato al Parlamento poteri di controllo e di tutela nei confronti delle forme più incisivedi privazione o limitazione della libertà del parlamentare, quali appunto larresto, la detenzione e la perquisizione personale o domiciliare, nonché in caso di intercettazioni che potrebbero interferire con lautonomia e la libertà dellazione politica del parlamentare. Diversa è la disciplina nel caso di reati commessi dal Presidente del consiglio o dai ministri nellesercizio delle loro funzioni.Le cronache istituzionali hanno di recente avuto occasione di parlarne in relazione al caso Diciotti, che ha interessato lex ministro dellinterno Matteo Salvini. Nei confronti dei reati ministeriali lintervento del potere politico è più diretto e immediato: a seguito di una riforma costituzionale del 1989 i reati commessi dal Presidente del consiglio e dai ministri sono giudicati dalla magistratura ordinaria, che potrà procedere solo se autorizzata dal Parlamento: in particolare, dalla camera di appartenenza se il ministro è parlamentare, dal Senato se non è parlamentare. Il Parlamento può negare lautorizzazione ove ritenga sulla base di una valutazione squisitamente politica e insindacabile, che il ministro inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nellesercizio della funzione di governo. E così è appunto avvenuto per il caso Diciotti.