Nei quartieri di Buenos Aires sembra di essere tornati al 2001, con le famiglie riverse sui marciapiedi che chiedono l’elemosina e i senza tetto che si arrangiano come possono sotto i cartoni per sottrarsi alla morsa dell’inverno australe.

Lungo le grandi arterie che tagliano il centro storico della capitale gli uffici di cambio mostrano ai passanti increduli la caduta libera del peso, la moneta nazionale, che solo lunedì scorso ha perso il 14% del suo valore sul dollaro. Non ci sono ancora gli assalti ai bancomat e le scene di guerriglia urbana con i reparti antisommossa della polizia, ma il clima è quello che, di solito, precede le grandi tempeste. In effetti i numeri non lasciano spazio a dubbi: l’Argentina balla di nuovo il cupo tango della crisi.

Il bilancio dei quattro anni di mandato del presidente Mauricio Macrì, l’uomo che tanto piaceva ai mercati internazionali e che aveva promesso di «sconfiggere la povertà», è un completo disastro. Certificato da un’inflazione che galoppa a ritmi folli ( più 55% dall’inizio dell’anno), dalla svalutazione del peso ( da 9 a 45 pesos per un dollaro in tre anni), dai capitali in fuga ( 70 miliardi di dollari dal 2016) dal crollo verticale della produzione industriale, dalla chiusura degli ospedali, dalle sforbiciate al welfare ( servizi, educazione, ricerca), e dall’aumento inarrestabile della povertà.

Un argentino su tre vive infatti in stato di indigenza, una percentuale che tocca la vergognosa soglia del 50% tra i minorenni mentre la rabbia sociale corre livida per le strade delle città dove si moltiplicano le manifestazioni di protesta, i flashmob, con i suoni assordanti dei cacerolazos che vibrano nell’aria e con i sindacati che chiedono a gran voce di indire lo «stato di emergenza alimentare» per aiutare i milioni di argentini che non riescono a unire il pranzo con la cena.

Senza il prestito di 57 miliardi concesso dal Fondo Monetario nel settembre del 2018 in cambio di tagli draconiani alla spesa pubblica, il Paese sarebbe andato dritto dritto in default. Come spiega amareggiato l’ex presidente dell’Unione industriali Hector Mendez, un tempo grande sostenitore di Macrì e oggi tra i suoi più accaniti oppositori, «la situazione economica e sociale dell’Argentina è veramente drammatica, una situazione che ricorda da vicino l’epoca della dittatura di Videla, fa male essere stati dei complici silenziosi di questo scempio».

Contestato nelle piazze, incalzato dall’opposizione, abbandonato dai suoi, difficilmente Macrì verrà rieletto alle presidenziali del 27 ottobre che dovrebbero segnare il ritorno dei peronisti al potere.

Secondo tutti i sondaggi gli argentini, disgustati dalla sua gestione politica, ridaranno fiducia al blocco di centro- sinistra guidato da Alberto Fernandez e dall’ex presidenta Cristina Kirchner, avanti di oltre 15 punti su Propuesta Republicana, il partito del presidente, il che potrebbe garantirgli la vittoria fin dal primo turno. Eloquente lo slogan del Frente de Todos che raccoglie socialdemocratici e peronisti di sinistra sotto un programma di lotta all’austerità e di rivalutazione dell’era Kirchner: «Stiamo tornando!».

A poco più di un mese dalle elezioni la campagna rischia di assumere una piega preoccupante, molti osservatori temono una svolta radicale della contestazione ma anche i colpi bassi di chi, come Macrì, non ha più molto da perdere e quindi prova giocarsi le carte più sporche. Gli attacchi volgari rivolti contro Axel Kicilof, ex ministra dell’economia di Cristina Kirchner e oggi candidata governatore di Buenos Aires ( il 27 si vota anche per i municipi) che è stata accusata dal presidente di essere una «traditrice della patria, marxista e comunista» fanno parte del bieco campionario di bassezze politiche sfoderato in queste settimane.

Come le surreali lettere spedite, sempre dall’entourage di Macrì via WhattsApp ai portavoce della comunità ebraica in cui afferma che con la vittoria della sinistra gli ebrei argentini vivrebbero in un paese «che ricorda la Germania hitleriana».