Forse non ce ne siamo ancora accorti ma il sistema maggioritario non se la sta passando bene. E non vale solo per l’Italia, dove sopravvivono originalissimi schizzi del medesimo sulla legge che elegge il Parlamento.

Forse non ce ne siamo ancora accorti ma il sistema maggioritario non se la sta passando così bene. E non parliamo solo dell’Italia, dove sopravvivono solo originalissimi schizzi del medesimo sulla legge che elegge il Parlamento.

Parliamo dell’Europa, dalla Francia del pur in pista ancorché acciaccato Macron, all’Inghilterra che se lo inventò creando la mitologia del modello Westminster e dove quell’originale personaggio di Boris Johnson ne sta verificando la deliziosa implosione. Parliamo degli Stati Uniti, dove furoreggia un presidente che si rappresenta eletto dal popolo, ma che ricevette dal popolo tre milioni di voti in meno della Clinton.

Se si cerca nei manuali di diritto costituzionale il lume per capire cos’è maggioritario, ci si imbatterà in formule che spiegheranno che questo sistema si addice a società culturalmente, politicamente e socialmente omogenee, tendenzialmente orientate a sostenere l’egemonia di due partiti ( bipartitismo) alternativi l’uno all’altro.

Un sistema che, dunque, può sacrificare una parte della rappresentanza in favore del premio conferito al partito che prevale sugli altri, al fine di rafforzare il governo, considerato che la stabilità è essa stessa un bene politico.

Al contrario il sistema proporzionale si addice alle società frammentate, disomogenee culturalmente e socialmente, dove esiste una tradizione di pluralismo partitico e non di bipartitismo. A differenza del maggioritario, il proporzionale non ha la primaria missione di promuovere l’alternanza tra due partiti egemoni, ma di rappresentare fotograficamente la società e i suoi orientamenti politici prevalenti.

Perché, allora, implode il maggioritario nelle democrazie parlamentari dell’Occidente?

Perché il vecchio schema bipolare, tra due attori egemoni o prevalenti, ideologicamente alternativi, è morto. Siamo nel tempo della politica frammentata, dopo la fine dei partiti ideologici e l’avvento di formazioni “cesaristiche” poggiate sull’emotività elettorale piuttosto che su sistemi di pensiero coerenti.

Per guardare alle cose nostre si veda l’epopea dei partiti sovranisti e populisti, la loro precipitevole salita a livelli elettorali da Dc dei tempi buoni, la loro precipitevolissima discesa ( poco ardita), a conferma che i cicli politici sono diventati brevi, mutevoli e capricciosi come il passaggio di uno spot pubblicitario in un thriller.

Alle spalle abbiamo una lunga stagione ( nata nel 1993 con il referendum antiproporzionalista di Segni) in cui gridolini di entusiasmo per il maggioritario zittivano quelli che osavano porre dubbi sulla sua versione strapazzata all’italiana che salmodiava il bipolarismo di una quarantina di partiti e microformazioni alleate ( destra versus sinistra) per lucrare premi di maggioranza e poi tornare a dividersi.

Oggi invece tutti pazzi per il proporzionale. Bene: avessimo evitato di storpiare il nostro sistema ci saremmo evitati un quarto di secolo di entropia politica, d’incompetenza della classe dirigente e le cinque ( ripeto: cinque) nuove leggi elettorali, che sono un record mondiale, ovviamente destinato a migliorarsi.

Il governo Conte ha il compito di proporre al Parlamento che gli ha dato la fiducia la nuova legge elettorale e farla approvare dalla sua maggioranza.

Sul piano istituzionale è la cosa più importante che si troverà a fare. Occorre, però, che su questo tema si apra un dibattito pubblico perché il Paese non resti passivo rispetto alla questione centrale della politica che, altro non è, se non il prodotto delle leggi elettorali.

Buone leggi, fatte senza guardare all’utilità di chi le fa, fanno buona la politica. Cattive leggi... beh, è davanti agli occhi.