Con l’avvento di ogni nuovo governo si pone il tema di come migliorare l’efficienza dell’amministrazione pubblica. Da sempre la lentezza e l’inefficienza degli apparati è considerata la palla al piede del Paese, che farebbe perdere molti punti di Pil, e ciò nei più vari settori, dagli enti locali a quelli centrali. Altro argomento, non disgiunto dal primo, è la propensione a pratiche corruttive, che interventi legislativi e diverse proposte ( si pensi agli agenti provocatori), oltre a un dibattito che può dirsi quotidiano, non hanno risolto, nonostante questa sia considerata un’emergenza nazionale. È chiaro che ogni generalizzazione sarebbe pericolosa, essendo moltissimi i funzionari che possano dirsi valorosi e fedeli, vista la difficoltà in cui operano per leggi mal scritte, e rischi di incappare incolpevolmente nelle maglie della giustizia sia penale che contabile.

Né è immune il sistema imprenditoriale italiano, che accetta o avalla certe pratiche, visto il così scarso numero di denunce. Certo, appare disarmante come il risveglio di coscienze che si ebbe con Tangentopoli nei primi anni ’ 90 abbia prodotto davvero poco sotto il profilo del mutamento dei comportamenti, tanto che ad oggi le tristi classifiche che si leggono ovunque considerano l’Italia tra i paesi più corrotti d’Europa.

A ben guardare, almeno sul piano delle statistiche giudiziarie, si è passati da una corruzione dei più alti livelli dell’amministrazione e della politica ad una maggiore diffusione di questi fenomeni nei livelli intermedi, cioè per quelle postazioni decisionali, pur decisive, che non colpiscono l’opinione pubblica, ma che frenano le imprese e i cittadini e, di conseguenza, l’economia. In maniera forse impropria, è mia opinione che conti poco se si tratta di corruzione o concussione: è pur sempre un fenomeno che, al di là della qualificazione giuridica, denota scarso attaccamento alla cosa pubblica, alle proprie funzioni, e in generale all’idea di dover «giocare pulito». Un contributo certo importante, per assistenza e controllo, oltre che approfondimento scientifico, è stato svolto dall’Autorità Anticorruzione ( Anac) presieduta sino a poche settimane fa da Raffaele Cantone. L’Anac ha avuto non solo il merito di costituire un osservatorio di molteplici fattispecie dubbie, ma anche di rappresentare plasticamente, agli occhi di molti italiani, un presidio di legalità. L’esperienza di molti anni di professione di avvocato a contatto con le pubbliche amministrazioni, porta a svolgere alcune considerazioni sul tema.

La corruzione, il malaffare, si annidano più facilmente nei procedimenti quando manca la trasparenza e la pubblicità degli atti. E ancora, quando gli stessi procedimenti sono inutilmente complessi; quando, per paradosso, aumentano i controlli e dunque s’impone quella «ulteriore e necessaria» firma, di cui si potrebbe fare a meno.

TRASPARENZA: ORA C’È

Sul piano della trasparenza in Italia, per verità, si è fatto molto. Oggi non vi sono sostanziali limiti all’accesso ai documenti, in base a una normativa che via via si è adeguata a partire dalla legge 241/ 90 sino al decreto legislativo 97/ 2016, che ha rinnovato The Freedom of information Act ( il cosiddetto Foia), originato dall’ordinamento statunitense. In base a tali norme, praticamente chiunque abbia interesse può accedere alle informazioni che ritiene utili, e la circostanza che gli atti sono tutti pubblici e potenzialmente verificabili è, certo, un freno per chi tende a delinquere. Sul punto, anche per sottolineare l’impegno scientifico di Anac su questo fronte, si segnala lo studio di Anna Corrado, giudice di Tar ed esperto del Consiglio dell’Anac, che ha pubblicato di recente un completo lavoro sul tema, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa.

IL TUNNEL DEI CONTROLLI

Sull’altro fronte, e cioè quello della semplificazione, si è fatto invece poco o nulla. È sempre opportuno, come detto, tendere alla riduzione dei passaggi procedimentali, a far sì che anche i controlli si riducano a quelli veramente necessari. Più passaggi di scrivania farà una pratica, più possibilità ci saranno per i funzionari infedeli di fermare dolosamente il meccanismo virtuoso. Gli esempi di questa cattiva pratica sarebbero moltissimi. Pare significativo segnalare innanzitutto il settore dei finanziamenti pubblici, in genere gestiti o dai ministeri economici o dalle Regioni, anche se di provenienza comunitaria. Essi per lo più funzionano come un concorso, con domande/ istanze di contributo, commissioni, verifiche, graduatorie, assegnazioni di fondi e controlli successivi. Una pratica di finanziamento parte dall’impresa, dal cittadino o dal loro professionista, e passa per decine di mani. Tali enormi risorse sono naturalmente importanti e allo stesso tempo una tentazione per chi deve decidere sulla base di criteri anche discrezionali. E allora, come si è già sperimentato in altri settori, sarebbe molto meglio applicare criteri automatici per l’attribuzione del contributo, con l’aiuto della tecnologia e di formule matematiche e oggettive. Ancor più efficace si è rivelato il finanziamento sotto forma di sgravio fiscale. Il cittadino, anziché ricevere le risorse, non paga le tasse corrispondenti: lo Stato si finanzia, si combatte anche l’altra – non meno grave – piaga dell’evasione fiscale e si tagliano anche fuori mediatori, professionisti, talvolta inadeguati, che trovano scorciatoie nei corridoi degli enti, funzionari che con un tratto di penna decidono le sorti di un’azienda e dunque si trovano, anche al di là delle loro effettive competenze, ad essere decisivi.

Stesso discorso per l’altro settore che spesso balza alle cronache come territorio di caccia dei corrotti e corruttori, e cioè gli appalti pubblici. Anche qui si sono compiuti notevoli passi avanti sul piano della trasparenza, non solo con le norme richiamate sopra ma anche con specifiche disposizioni inserite nel Codice degli appalti e nelle norme dispositive che ne sono seguite. Rimane però la complessità dei procedimenti e un’eccessiva discrezionalità di alcuni metodi di scelta del contraente. Anche in questo caso appare necessario, per tentare di contenere il fenomeno corruttivo, affidarsi a criteri in cui la discrezionalità sia esclusa o quasi, come quello del “massimo ribasso”, seppur con i temperamenti opportuni per la buona riuscita dell’opera che l’esperienza da tempo fornisce.

Il Codice degli Appalti favorisce il metodo dell’“offerta più vantaggiosa”, che ha indubbi meriti ma forse non è proprio adatta ai tempi che viviamo, trattandosi di sistema ove la scelta del contraente dipende troppo ancora da valutazioni di merito. Infine, in conclusione, non può rimarcarsi che la riforma più seria, sarebbe la semplificazione legislativa, quella di «scrivere chiaro» dell’onus clare loquendi. Una legge o un regolamento scritti male permettono più interpretazioni e dunque ancora una volta la possibilità di nascondere possibili ipotesi corruttive dietro atti apparentemente legittimi. Ma questa è opera culturale, più complessa, specie nei tempi che ci tocca vivere.

* Avvocato amministrativista, presidente della Camera amministrativa della Campania, consigliere dell’ Unaa