Nel salotto buono dell’aristocrazia milanese, la padrona di casa offre un tè ai suoi ospiti, preoccupandosi solamente di aggiungere o il latte o il limone, preferenza personale che non riusciva mai a rammentare.

Il tempo trascorre come sempre nel solco di simili futilità.

Ma all’improvviso, uno degli ospiti, dopo aver comunicato che giorni prima era stato commesso un efferato omicidio a Roma, chiede con fare inquisitoriale alla padrona di casa dove mai lei si trovasse il giorno del delitto: forse a Roma?

La donna, interpellata con tale malizia e sorpresa dalla domanda inattesa, si sente in imbarazzo, fino a quando ricorda che proprio quel giorno si era portata a trovare una parente in altra città e trionfante esibisce il biglietto del treno quale alibi certissimo della sua assenza da Roma. Sembra tutto a posto, quando, con rapidità fulminea, la luce si abbassa, gli ospiti appaiono rivestiti di toghe nere come spietati pubblici ministeri e a suo carico cominciano a fioccare le più assurde accuse: aver ucciso un bambino innocente, un prete illibato, un vecchio malato ecc.

La donna, accusata di tali e tanti orribili delitti e sprovvista di altri alibi, si sente perduta, in quanto non le è possibile difesa alcuna. Teme perciò di esser condannata.

Infatti, viene condannata alla più atroce delle pene che, a differenza di quanto si pensa, non è la pena di morte, ma il suo contrario: è la pena di vivere, più precisamente di vivere per sempre in quella sorta di perpetuo incubo in cui consiste il moltiplicarsi delle accuse più assurde e più gravi e dalle quali è impossibile difendersi.

Tuttavia, non appena pronunciata la condanna, la scena cambia repentinamente, mostrando di nuovo gli ospiti comodamente seduti in poltrona a sorseggiare il tè, mentre la padrona di casa offre il limone o il latte.

Tutto come prima, insomma, anche se – ovviamente – nulla come prima.

Questa, per sommi capi, la vicenda narrata da Dino Buzzati in questo suo libretto d’opera musicato da Luciano Chailly – padre dell’odierno direttore scaligero - ed edito da Ricordi.

Come si vede, una esemplare narrazione in stile buzzatiano, uno stile semplice – e per que- sto assai difficile da sostenere – denso di ambiguità e, come spesso accade nella sua pagina, intriso di misteriosi incubi.

Questi hanno molto da insegnare al giurista.

In prima battuta, l’insegnamento più necessario: e cioè che l’accusa, per esser davvero tale in senso giuridico, deve essere necessariamente circostanziata e mai fumosa, illogica, fantasiosa. Infatti, se l’accusa fosse – come nel testo buzzatiano – fumosa, replicante, tentacolare, insomma non circostanziata nei suoi elementi di fatto e di diritto, sarebbe impossibile difendersi. Da qui, infatti, l’incubo ossessivo: quello di esser accusati – come la padrona di casa dell’aristocratico salotto milanese – di gravissimi delitti, ma senza poter offrire alcuna giustificazione in senso contrario, atta a dimostrare la non pertinenza dell’accusa, la sua infondatezza.

E d’altra parte se l’accusa è essa stessa assurda e fantasiosa, la difesa sarà oggettivamente impossibile: ci troveremmo davanti ad una pseudoaccusa che vanifica ogni difesa.

Per questo i vecchi giuristi ripetevano che se fossimo accusati di aver rubato la torre di Pisa, per prima cosa faremmo bene a fuggire, procrastinando ogni possibile difesa.

Si badi. Il “memento” di Buzzati, lungi dall’esser un semplice espediente letterario, si lascia invece cogliere – oggi più che mai – quale motivo di reale preoccupazione per le sorti del diritto e, con esso, della libertà personale delle persone coinvolte in vicende che a volte son dipinte come oscure ma che, alla resa dei conti, o sono chiarissime oppure addirittura del tutto inesistenti.

Chi scrive da anni denuncia peraltro come a volte – presso i Tribunali italiani - il capo d’accusa sia formulato in modo approssimativo, impreciso e come perciò si mostri, per dir così, “ballerino”, non rimanendone sufficientemente chiari i confini e la portata giuridica.

Da qui, gravi difficoltà per la difesa, a volte insormontabili, perché ne è improbo il compito.

E dunque il giurista è avvertito di questo grave pericolo, tanto quanto basta per evitarlo, sempre che ovviamente sia curioso di perdersi negli incubi di Buzzati.

Non basta. La magistrale narrazione ci mostra ancora come l’accusa sia sempre in procinto di essere lanciata, sia una possibilità umana che le compagini sociali adoperano allo scopo di pacificare le coscienze, di arginare il risentimento sociale.

Si tratta del ben noto meccanismo messo in luce da Girard, noto come quello del “capro espiatorio”. In virtù sua, accusare un soggetto attraverso incolpazioni assurde e cerebrine equivale a sacrificarlo in qualità di colpevole di ogni disagio sociale e perciò, alla fine, a salvare la società. Ecco allora che il compito del giurista è quello di demistificare l’accusa, di farla scorgere per quella che a volte essa effetti-vamente è: null’altro che una persecuzione di una vittima.

Individuata l’accusa come persecuzione, il meccanismo vittimario del capro espiatorio implode su se stesso e dilegua.

Il giurista, dunque, come colui che è chiamato a custodire l’efficacia di questo compito di demistificazione delle persecuzioni, senza il quale ogni vivere civile sarebbe impossibile.

Buzzati ce lo ricorda. E i giuristi di oggi se lo ricordano?