Sono due big. Uno, Alfonso Bonafede, potrebbe restare ministro della Giustizia. L’altro, Andrea Orlando, è candidato a essere vicepremier, forse l’unico, nel Conte bis. Ed è soprattutto il predecessore di Bonafede a via Arenula.

Tra loro due potrebbe attivarsi il polo dialettico più intenso dell’eventuale alleanza giallorossa. Fatte salve, com’è ovvio, le fibrillazioni già in corso su legge di Bilancio e reddito di cittadinanza. L’asse sulla giustizia tra Bonafede e Orlando promette di essere croce e delizia del nuovo patto di governo. A partire da un dossier caldissimo e decisivo: le intercettazioni.

Su come riformarle, infatti, rischia di aprirsi caso. Orlando è, in materia, autore di un decreto legislativo mai entrato in vigore eppure mai affossato del tutto dallo stesso Bonafede. Su quel testo, la cui efficacia è ora rinviata al 31 dicembre, si giocherà una partita enorme.

Perché la giustizia è sempre un tema chiave: lo è stato anche nell’epopea gialloverde, in cui ha innescato un’anteprima della crisi col no di Salvini alla riforma penale di Bonafede. Sulla giustizia si arroventerebbe, di sicuro, anche il rapporto del Movimento col Pd. Non senza sorprese, certo, perché su alcuni contenuti del ddl su processi e Csm, per esempio, il dem Orlando potrebbe essere assai più concorde di quanto non sia stata la leghista Bongiorno.

Ma intanto si dovrà fare i conti con la mina della nuova prescrizione, vigente dal 1° gennaio prossimo. E, appunto, con le intercettazioni.

Il disvelamento di traffici veri e presunti della “casta” è una prassi di sistema a cui Bonafede non intende rinunciare: «Non possiamo riportare le lancette indietro nel tempo», ha detto, «a quando la politica pensava fosse giusto che il popolo italiano non dovesse sapere cosa accadeva in certi contesti».

Orlando la vede molto diversamente. Non a caso, il 29 dicembre del 2017, a pochi mesi dalla fine dell’esecutivo Gentiloni, ottenne il via libera al suo decreto intercettazioni, che sarebbe dovuto entrare in vigore nei mesi successivi.

Tra le norme allora previste, una versione più prudente dei limiti per l’uso dei trojan nelle indagini per corruzione, ormai irreparabilmente superata dalla “liberalizzazione” introdotta con la “spazza corrotti”. Ma nel provvedimento firmato dall’attuale vicesegretario Pd c’erano anche altri interventi.

Innanzitutto il divieto, per la polizia giudiziaria, di trascrivere conversazioni che riguardassero persone estranee alle indagini o dati sensibili, dal punto di vista della privacy, comunque non rilevanti rispetto agli stessi illeciti ipotizzati.

E poi l’obbligo, per gli stessi pm e per i gip, di evitare la trasposizione integrale dei brogliacci nelle richieste e nelle ordinanze di misure cautelari, e di limitarsi a riportarvi solo i “brani essenziali” delle conversazioni captate.

Ecco, è forse questo il punto chiave. Perché è chiaro che se la possibilità di richiamare le telefonate viene ridotta alla fonte, diventa assai più impervio, per i giornali, acquisire contenuti non penalmente rilevanti ma compromettenti per il notabile di turno.

Su come modulare una simile norma si consumerebbe, probabilmente, lo scontro fra M5s e Pd, e in particolare tra Bonafede e Orlando. E non è che la discussione possa trascinarsi a lungo, come invece è stato, con la Lega, sulle modifiche al processo penale.

Sulle intercettazioni c’è quella data ghigliottina, impossibile da aggirare: il 31 dicembre. Dopo quel giorno la riforma Orlando entrerebbe in vigore così com’è. Se fosse andato avanti l’esecutivo gialloverde, Bonafede avrebbe cercato, per tempo, di rimaneggiarla in profondità.

Gli sarebbe risultato difficile, considerata la posizione di Salvini e Bongiorno. Ma ora potrebbe trovare in Orlando un interlocutore ancora più spigoloso, giacché si tratta dell’autore stesso del decreto. Sarà una linea calda, se mai l’alleanza prenderà il largo. Ma non è detto che le agitazioni siano tali da provocare un altro naufragio.