Della sentenza, in Italia, si è parlato poco. Non perché riguardasse la Germania ma per l’effetto uragano della crisi politica, che ha inghiottito ogni discussione sui temi reali. Fatto sta che la pronuncia emessa a inizio luglio della Corte di Giustizia dell’Ue in materia di tariffe professionali promette di aprire un nuovo capitolo nella controversa regolazione del lavoro autonomo.

Con il dispositivo in questione, il C- 377/ 17 dello scorso 4 luglio, i giudici di Lussemburgo hanno ricordato, sì, che il Trattato di funzionamento dell’Unione e la direttiva 123 del 2006 classificano i limiti minimi e massimi dei compensi professionali come possibili ostacoli alla libera concorrenza, alla libera prestazione di servizi e al diritto di stabilimento negli Stati membri, ma ha anche affermato con una certa decisione che le autorità nazionali possono eccome prevedere delle deroghe a quel principio, in particolare di fronte a “motivi di interesse generale”.

Gli Stati dunque, possono “mantenere in vigore” tariffe eventualmente fissate per legge. Ora, la pronuncia si riferisce specificamente ai compensi previsti in Germania per architetti e ingegneri, che le autorità di Berlino potranno a questo punto conservare.

Ma è immediatamente chiaro il riflesso per quegli Stati che, come l’Italia, hanno invece liberalizzato il regime dei compensi, con provvedimenti come l’eternamente evocato decreto Bersani ( il 223 del 2006): dopo la sentenza C- 377/ 17 della Corte Ue, pare evidente come una eventuale reintroduzione di limiti tariffari non incorrerebbe in una automatica scomunica di Lussemburgo.

Gli sviluppi sono legati naturalmente al concetto chiave dell’ultima pronuncia: l’esistenza di “motivi di interesse generale” che possono giustificare il mantenimento ( in casi come quello italiano, il ripristino) delle tariffe professionali e l’“onere della prova” in capo alle stesse autorità pubbliche dell’effettiva sussistenza di tali ragioni imperative.

Ebbene, è sotto gli occhi di tutti lo scenario che negli ultimi tre lustri si è dispiegato in Italia, in particolare per una professione come quella di avvocato: l’incremento vertiginoso del numero degli iscritti all’albo, il ricorso al ribasso dei compensi come strumento per sopravvivere in una simile condizione di sistema, la strumentale e simmetrica corsa al ribasso nei prezzi alla domanda imposta dai “committenti forti”, il conseguente, inevitabile livellarsi in negativo anche della qualità delle prestazioni. Con un punto di caduta finale assai pericoloso: il ridursi di una professione come quella forense — deputata alla tutela dei diritti — a moltitudine spaesata di produttori seriali di servizi, asserviti alle condizioni poste dagli stakeholders del loro mercato.

Sono i presupposti sociali che consentirebbero, probabilmente un’agevole pretesa di deroga, da parte dello Stato italiano, ai vincoli posti dalla Commissione Ue in materia di tariffe. Certamente nel caso degli avvocati, ma senza particolari ostacoli anche per altre categorie. In parte il processo è già in corso. È partito due anni fa, con le norme sull’equo compenso messe a punto dall’allora guardasigilli Andrea Orlando insieme con il Cnf.

Si è rafforzato con le modifiche al decreto sui parametri forensi. Fino a riproporsi con forza dopo alcuni passaggi chiave, come il bando a zero euro emanato lo scorso marzo dal Mef: in quell’occasione un player politico tutt’ora in prima linea come Luigi Di Maio ha preso una posizione molto severa nei confronti di via Venti Settembre; nelle settimane successive l’attuale ministro della Giustizia Alfonso Bonafede — anche lui del M5s — e il sottosegretario Jacopo Morrone — della Lega — hanno istituito un monitoraggio e un tavolo tecnico per rafforzare la disciplina sui compensi.

È presto per dire se si potrà compiere il passo ulteriore: ossia un ritorno a limiti tariffari inderogabili per tutti i committenti e tutte le professioni. Ma certo le indicazioni venute a luglio dall’ultima sentenza della Corte Ue si coniugano con un quadro politico in cui tutti i principali attori sembrano ben disponibili ad archiviare la stagione del mercato onnipotente.