Si può ammazzare la moglie deliberatamente senza essere puniti per questo?

Può accadere nell’universo immaginario ( ma fino a un certo punto ) di Henrik Stangerup, uno dei più raffinati scrittori della letteratura scandinava.

Si tratta di una letteratura forse poco conosciuta, ma di primissimo piano nel panorama letterario internazionale: basti pensare che ad essa appartiene il testo della scenografia de “Il settimo sigillo”, dovuto ad Ingmar Bergman, uno dei massimi capolavori della filmografia mondiale di tutti i tempi.

La trama, in breve. Torben, scrittore dalla vena inaridita, vive con la moglie in un universo che potremmo definire “concentrazionario”, che richiama alla mente il “1984” di Orwell.

Lo Stato onnipresente e onnisciente tutto disciplina e tutto organizza, tutto sorveglia e tutto prevede. Perfino per generare un figlio, occorre una espressa autorizzazione degli organi competenti, i quali decideranno in modo insindacabile se e chi sarà reputato degno di divenire genitore, pena sanzioni molto severe: chi, dopo aver superato gli opportuni test, non otterrà il “certificato di procreazione” non sarà autorizzato a procreare.

Torben, dotato della sensibilità propria di uno scrittore, soffre moltissimo questa situazione antiumana perché profondamente liberticida e per questo motivo, lui e la moglie Edith si sono sempre schierati – sia pure in modo cauto per non incorrere nella severità delle sanzioni – contro il regime.

Si giunge al punto di vietare le fiabe di Andersen, considerate antisociali perché troppo capaci di esaltare il genio del singolo; mentre quelle, celeberrime, dei fratelli Grimm vengono depurate dagli elementi considerati socialmente inutili o addirittura nocivi.

Insomma, una situazione umanamente insostenibile. Tuttavia, inaspettatamente, Edith, stanca di opporsi al sistema, sembra cedere…. Ed è allora che Torben – sentendosi tradito – preso da una furia violenta, la uccide, probabilmente per evitare una completa resa di lei al sistema sociale e statale.

Subito dopo, ovviamente, rendendosi conto del grave fatto commesso, ne soffre la colpa e chiama lui stesso gli Assistenti, chiedendo di essere arrestato e punito.

Ma, sorprendentemente, gli Assistenti si rifiutano di arrestarlo e processarlo, affermando che di colpa e colpevolezza non è più lecito parlare, dovendo il fatto increscioso accaduto ascriversi ad un doloroso errore nel sistema sociale, che evidentemente nascondeva una falla, una lacuna.

E dunque bisogna aggiustare il sistema, ma senza ovviamente punire nessuno, perché nessuno può essere considerato colpevole di nulla, per quanto grave sia il fatto di cui si tratta.

Torben si stupisce ovviamente del fatto di non potere essere né arrestato né processato né punito e chiede perciò ripetutamente di essere giudicato e dichiarato colpevole dell’omicidio di Edith.

Invano.

Si gioca qui tutta la vicenda della libertà umana. Torben sa bene infatti che soltanto attraverso il riconoscimento della sua colpevolezza, potrà essere affermata la sua libertà di essere umano; altrimenti, se ci limiterà ad aggiustare il sistema sociale, ritenendolo lacunoso, insieme alla sua colpevolezza, sarà la sua libertà ad essere per sempre seppellita: ed insieme alla sua libertà, la sua stessa dignità di essere razionale e responsabile. E proprio questo gli risulta intollerabile, ma è proprio su questo paradosso che si sviluppa tutta la linea narrativa del racconto: l’omicida reo confesso che chiede di essere riconosciuto colpevole del delitto e perciò di essere processato e punito, mentre il sistema sociale ostinatamente nega ogni sua colpevolezza, perché ciò serve a negare la sua libertà e la sua dignità, rendendolo un semplice ingranaggio di una lunga catena e, come tale, privo di volontà e responsabilità. Il racconto ha molto da dire circa l’epoca in cui viviamo, non sembrando possa essere relegato nella stantia categoria del futuribile politico e sociale. Non si tratta più di futuribile: già oggi viviamo una situazione complessiva che, dal punto di vista politico e giuridico, per alcuni versi è immediatamente riferibile a quella descritta da Stangerup. Gli spazi di libertà si sono drasticamente ridotti. Tutti coloro che muovono le leve del potere possono sapere tutto di ciascuno di noi e a nostra insaputa: cosa abbiamo acquistato al supermercato; quali abiti vestiamo; quanto e quale carburante usiamo per la nostra auto; cosa mangiamo al ristorante; quale sia la nostra pizza preferita; dove trascorriamo le vacanze e con chi; cosa diciamo al telefono e con chi parliamo e per quanto tempo… Ciascuno di noi viene martellato ogni ora del giorno da inviti, offerte, premi, pubblicità varia, sia in televisione, sia telefonicamente, sia attraverso messaggi… La cosa che dovrebbe più preoccupare il giurista e che invece sembra non interessarlo per nulla è dunque quella posta nel cuore del racconto : la libertà, la cui faccia nascosta è la colpevolezza. Se infatti viene negata la colpa, viene negata anche la libertà di colui che deliberatamente abbia assunto un certo comportamento. Il giurista di oggi – sia il legislatore, sia il giudice, sia l’avvocato o il docente – preda di una vera ossessione per il tecnicismo fabbrile, è portato a credere che della colpevolezza e della libertà si possa fare ciò che sia più opportuno, secondo le circostanze e senza limiti. Ebbene, così non è. Basti pensare a come e quanto la legislazione premiale abbia inciso sulla dinamica profonda del diritto penale, facendolo tralignare pericolosamente in altro da se, proprio attraverso la messa a disposizione della colpevolezza – cioè della libertà – dei collaboratori di giustizia, che di volta in volta vengono esentati dalla pena oppure se la vedono ridotta in modo consistente senza altro motivo che non sia l’appropriazione della loro libertà e responsabilità da parte di un sistema somigliante a quello descritto da Stangerup. Odo già le geremiadi dei benpensanti che, stracciandosi le vesti come Caifa quando Cristo si disse figlio di Dio, grideranno che dei collaboratori di giustizia abbiamo invece bisogno assoluto per combattere la mafia e le altre associazioni criminali. Benissimo. Ma a quale prezzo? Chi non l’avesse capito – soprattutto fra i giuristi – legga, se non ancora mentalmente imbolsito dalle anodine lezioncine scolastiche che si tengono in alcune Università e su diversi giornali ( ma in realtà gravide di furore ideologico), queste pagine. E mediti sulla crudele disumanità del mondo che in parte è già arrivato e in parte ancora ne verrebbe: perché solo chi viene riconosciuto libero e responsabile è degno di definirsi come essere umano.