Un magistrale racconto di Stefan Zweig, che si dovrebbe proporre a tutti gli studenti di giurisprudenza quale chiave privilegiata di meditazione per ogni giurista, nel processo di formazione della propria coscienza professionale, ma che, proprio per questo motivo, non lo sarà mai.

La pubblicazione di oggi è allora una sorta di tentativo di riesumazione del racconto, a favore dei giuristi che si ricordino di avere una coscienza, e non sono molti.

La trama, in breve.

Nel regno del Re Rajputa, il Birwagha, vive un uomo integro e stimato di nome Virata. Quale comandante supremo dell’esercito, sconfigge il nemico che voleva impossessarsi del regno, ma subito dopo la battaglia, si rende conto, con orrore, di aver ucciso a fil di spada addirittura il proprio fratello, i cui occhi lo fisseranno per sempre dalla lontananza della morte.

Così, Virata non riesce più a svolgere quel compito e chiede al Re di esserne esentato. Il Re a malincuore lo destina al compito di giudice supremo del regno.

Virata si impegna con ogni attenzione e prudenza nel ruolo di giudice supremo, meritandosi la stima di tutti. Ma un giorno, dopo aver condannato un giovane, responsabile di vari omicidi, alla prigionia in una profonda grotta, colpito dalle parole da questo pronunciate dopo la condanna ( “solo chi ha sofferto può mi- surare la sofferenza…”), si fa rinchiudere per un mese nella medesima grotta.

Virata capisce così che non potrà mai più condannare altri uomini alla stessa sofferenza e perciò chiede al Re di essere esentato dal compito, ottenendo quanto nei suoi desideri.

Virata si limita perciò ad amministrare i propri beni e la propria famiglia, ma in poco tempo la sua saggezza e la sua correttezza travalicano i confini del regno e perciò da ogni dove giungono persone di ogni classe sociale a chiedere il suo illuminato consiglio per ogni tipo di delicata questione.

Ma dopo una banale discussione con i figli che gli rimproverano di godere comunque dei servigi dei servi, trattati come fossero cose, egli capisce che essi hanno ragione: abbandona così la casa, rifugiandosi nella foresta inaccessibile e vivendo di acqua di fonte e dei frutti della natura.

Ma anche qui, il suo desiderio di purificare la sua coscienza non va a buon fine. Infatti, una donna gli rivela che il marito, vinto da profonda ammirazione per lui, aveva abbandonato, volendone imitare la vita, la propria famiglia per rifugiarsi nei boschi. Per questo motivo i figli, privati del sostentamento fornito dal lavoro del padre, erano morti di stenti.

Virata capisce allora che anche vivendo da asceta non aveva potuto evitate di condizionare la vita degli altri, causando il loro danno e usando loro, sia pure in modo indiretto, violenza.

Si fa assegnare allora al più umile dei compiti, quello di guardiano del canile del Re. Quando muore, da tutti dimenticato, gli è compagno solo il guaire dei cani.

Cosa può indicare questo racconto al giurista? Non poche cose.

Innanzitutto, che anche seguendo alla perfezione e con sommo scrupolo le regole processuali, è sempre in agguato il pericolo di commettere ingiustizia, occorrendo invece, allo scopo di realizzare la giustizia, qualcosa d’altro che si trova fuori dalle regole e dai processi.

Questo qualcosa altro non è che un senso di giustizia personale che possa consentire a chi sia chiamato – come lo era stato Virata – a rendere giustizia, ripartendo i torti dalle ragioni, di farlo con una sufficiente equanimità.

In altre parole, il giudice deve aver cura, prima di rendere giustizia, di esser lui stesso, per quanto possibile agli esseri umani, “giusto”.

A differenza del sacerdote che, anche se indegno, potrà amministrare i sacramenti validamente – perché il loro effetto non dipende dal celebrante ma proviene da Dio – il giudice, se indegno, non dispenserà che indegnità. Antica riflessione platonica questa, ma troppo spesso dimenticata ed occorre perciò che venga debitamente ricordata.

Insomma, l’esperienza umana di Virata non è che una lunga e dolorosa sequenza di tentativi esistenziali tutti rivolti ad evitare che ne derivi un condizionamento violento sulla vita degli altri: sia che si faccia il guerriero, sia il giudice, sia il saggio eremita.

Ecco perché, ogni giurista, e soprattutto il giudice deve aver cura in sommo grado di sensibilizzarsi alla delicatezza della propria funzione; deve essere in particolare consapevole che ogni giudizio di diritto è destinato a vivere una terribile contraddizione: da un lato, la necessità di giudicare i comportamenti umani, dall’altro, la impossibilità di giudicare, evangelicamente segnata dal “nolite iudicare”.

Per superare questa terribile e paralizzante contraddizione, al giurista non resta che nutrire la propria coscienza di come il giudizio che egli è chiamato a formulare non può che essere sempre parziale, imperfetto, limitato, come ben mostra di sapere e di soffrire Virata ( si pensi qui, a titolo di esempio, a coloro che vorrebbero abolire il grado di appello, quasi il primo grado di giudizio fosse il regno della verità assoluta…).

Ne viene che il giudice- giurista dovrà comportarsi in modo conseguente, tessendo il proprio giudizio di quel “timore e tremore”, senza il quale egli rischia di usare violenza sui propri simili. La più temibile delle violenze: quella consumata attraverso le forme del diritto.