L’incidente scatenante è suggestivo. Persino apocalittico. Ma non così irrealistico come prescrivono i fantasy di qualche ambizione. Il mondo senza internet di Antonio Pascotto ( Male edizioni, pagg. 225, 15 euro) prende le mosse da un cortocircuito globale che separa per sempre l’uomo nuovo digitale dalla placenta telematica che l’ha ( ri) generato a partire dagli anni 90. Un bel giorno, per motivi di sicurezza internazionale, Internet diventa inaccessibile a ogni latitudine del globo. Così che il trauma collettivo che l’autore indaga con la vena felice del romanziere, ma anche con l’occhio clinico dell’anatomopatologo è compiuto: il Pianeta torna essere quello che è, e non più quello che sembra dal display di uno smartphone.

Azzerate le connessioni sparisce tutto il ventunesimo secolo in un batter d’occhio: applicazioni, domotica, automazione e robotizzazione, streaming, YouTube, WhatsApp, Facebook, Twitter.

Niente più foto su Instagram, niente Cloud, niente e- mail. Per spedire una lettera occorre tornare a fare la fila all’ufficio postale, per un bonifico bisogna recarsi necessariamente in banca. Nessun acquisto online, TripAdvisor è solo un ricordo. Ma d’improvviso, nella magnifica desolazione lunare del blackout cibernetico in cui ciascuno stava prima trafitto da un raggio di luce del telefonino, l’umanità superstite a se stessa si riscopre meno sola. Finiti i giga, l’uomo globale è costretto a consumare le suole delle scarpe. Tornano ad affollarsi le agenzie di viaggi. Riappare la gente davanti alle edicole. Si riscopre il gusto di leggere, di parlarsi negli occhi, di incontrarsi davvero e finanche per caso, senza più la mediazione estenuante di una chat. Un po’ romanzo e un po’ saggio, un po’ documentario e un po’ cronaca marziana, la nuova fatica letteraria di Antonio Pascotto, giornalista avellinese di origine e romano di adozione che ha alle spalle una lunga carriera al Tg4 ed è ora caporedattore dei canali News di Mediaset, si avviluppa intorno al più grande paradosso dei nostri tempi: la rete. Una parola che forte della sua duplice accezione semantica, biforca il senso del racconto e delle cose stesse in due direzioni uguali e contrapposte. La rete di Pascotto è infatti oggi apparato di sicurezza che tiene al riparo le nostre vite dall’incubo dell’isolamento, ma è allo stesso tempo la tela che le invischia in comportamenti preordinati, standardizzati dall’algebra atrofizzante del bit. Milioni di pagine web hanno paradossalmente ristretto gli orizzonti dello studio e della ricerca, centinaia di app sorte per risolvere ogni tipo di problema ( dal ristorante giusto per la serata alla foto migliore) hanno costretto le nostre menti a delegare ampie quote di sovranità cognitiva.

Il popolo delle libertà globali, si è trovato infine in ceppi nella caverna di Platone dove tutti si ritrovano schiavi della dittatura dell’algoritmo, e della vita vera non vedono che le ombre proiettate in un grande display. C’è davvero libertà nello scegliere un posto per mangiare che qualcun altro sceglie per noi in una maschera di ricerca? C’è libertà nello scorrere flussi di post e notizie che qualcun altro immette nei nostri spazi web personali in base alle ricerche che abbiamo effettuato? O siamo piuttosto vittime di una grande bolla liberticida gonfiata dall’oligarchia dei giganti del web che si sono impadroniti dei nostri dati personali e quindi delle nostre vite? È umano il silenziatore emotivo che oggi ci rende spettatori succubi e indolenti di ogni atrocità immessa in rete per fare audience? È salutare l’illusione di partecipare al vivere collettivo con un like? O è piuttosto un ammansimento, quello della rete, destinato a imbrigliare definitivamente spirito e coscienza, nella coincidenza assoluta tra vita virtuale e vita reale?

Sono questi gli interrogativi più dolorosi che balenano nelle pagine di Il mondo senza internet, con il suo sottotitolo che racchiude una vera e propria giungla di quesiti: “Connessioni e ossessioni. Dallo scandalo Facebook alla quiete digitale”. Una sorta di seduta di autocoscienza collettiva, quella impostata dall’autore, che ha il merito di ridestare le coscienze piombate da tempo nel sonno mortifero dell’abitudine. Antonio Pascotto, da cronista di razza, documenta l’evoluzione digitale: dal progetto Arpanet del 1962 a oggi. «Con sana provocazione Antonio Pascotto - scrive nella prefazione Christian Marazziti, regista del film “Sconnessi” - pone quesiti, interrogativi, mettendoci continuamente in eterna discussione. La realtà, per quanto strano possa sembrare a noi che ormai preferiamo vederla frammentata nei video più cliccati del giorno, ha ancora tantissimo da offrire».

Non si tratta infine di mettere in piedi una rivolta luddista fuori tempo massimo, sembra spiegare Pascotto, ma di scorporare neuroni e vissuti personali dalla rete che li imbriglia. Internet come mezzo, e non come fine. Internet come strumento, e non come dimensione esistenziale auto concludente. Dall’emoticon all’emozione, dal meme alla memoria. La riscoperta dell’individualità, sembra ammonire l’autore, è l’unica clausola di salvaguardia che possa mettere al riparo l’umanità dal pericolo concreto, e per nulla fantasy, di una clonazione di massa al servizio del conformismo globale.