Da anni, con altri colleghi cineasti, lavora anonimamente, si firma con il nome collettivo di “Abounaddara”. Si chiama Maya Khoury, se ne fa il suo nome perchè ha deciso di uscire allo scoperto. Siriana di nascita, studia letteratura e lavora come aiuto- regista. Fonda “Abounaddara” nel 2010. Con Of God and Dogs, del 2014 vince lo Short Film Grand Jury Prize al Sundance Festival.

Fi al- thawra che presenta alla 72esima edizione del Festival internazionale del cinema di Locarno lo si puo’ definire una sorta di “diario” di un paese in guerra. Protagonisti un gruppo di giovani attivisti politici. Animati da ammirevole idealismo, sono convinti che sia giunto il momento per cambiare il loro paese. Devono ben presto fare i conti con una realtà che dice ben altro. E’ una metafora con cui Khoury ci consegna una profonda riflessione politica sulle innumerevoli difficoltà di riunione un popolo e avviare un concreto processo di rinnovamento. Al tempo stesso si racconta il “quotidiano” della Siria. Ecco dunque, scorrere davanti a noi manifestazioni e feste di matrimonio, manifestazioni di piazza e scene di vita quotidiana, le discussioni e i dibattiti politici, quelli pubblici e quelli piu’ intimi e privati. L’occhio indagatore di Khoury mostra l’arrivo del gruppo jihadista radicale salafita di Al- Nusra, affiliato ad Al Qaeda, a Raqqa. Si dà voce a un disertore dell’esercito siriano in pena per il destino dei suoi ex commilitoni, e a un’attivista in lacrime: tra tutte le cose che la guerra le ha portato via, c’è anche l’impossibilità di vivere una storia d’amore in maniera “normale”.

Il film apre con la gente in piazza nel 2011, quando lo slogan era “Libertà per i musulmani e i cristiani” e si chiude con la gente in fuga nella notte. Sullo sfondo, Aleppo sotto i bombardamenti.

Come nasce l’idea del collettivo “Abounaddara”? «Dall’esigenza di unirsi per dare vita a una struttura che favorisse i registi indipendenti. Allora c’erano solo due modi per fare film: lavorare per lo Stato ( la National Film Organization), o per le televisioni pan- arabe o europee attraverso un produttore esecutivo locale. Noi volevamo raggiungere il pubblico direttamente, mettere i nostri film in Internet, creare uno spazio per il cinema indipendente». «Nella primavera del 2011, racconta Khoury, «ho visto miei concittadini di tutte le origini sociali, religiose e politiche manifestare in strada a rischio della propria vita urlando: “Karameh” ( dignità)! Fino a quel momento, ci era stato impedito di unirci intorno a un valore universale. Potevamo farlo solo intorno alla figura del capo dello stato e degli slogan nazionalisti che mascheravano profonde divisioni sociali ammantate da differenze religioso- confessionali. Dal 2011 le persone hanno cercato di raccontare la propria storia usando telefoni cellulari e social media».

Filma la rivoluzione e al tempo stesso sostiene di nutrire diffidenza nei confronti di chi parla di politica. La rivoluzione è politica, per definizione… «Ho seguito la rivoluzione da un punto di vista fisico, se cosi’ si puo’ dire. Il mio sguardo è più attratto dai corpi, che “parlano”, esprimono con i loro movimenti concetti, idee, pensieri di cui forse neppure chi li compie è del tutto consapevole. E’ un linguaggio, quello di quei corpi che fuori sincrono, spesso in contraddizione con il discorso che stanno facendo. Un giorno è come se la mia macchina da presa fosse stata attratta da una persona il cui corpo esprimeva un forte messaggio radicale. L’ho seguita, mi ha condotto agli altri… Il film è stato costruito cosi’, incontri casuali e silenziosi. Per questo personaggi noti della politica o dei media, incontrati lungo la strada, appaiono come comparse nel mio film... Non li ho cercati, non li ho voluti, non mi servivano, tutto sommato, per dare forma alla storia che volevo raccontare. Il mio obiettivo era cogliere scene della vita di tutti i giorni, confusa nella popolazione, relativamente al riparo dallo sguardo del potere».

Tuttavia, nel film, la politica è ben presente. Nelle scene sulle varie fasi della rivoluzione, si scandiscono slogan che invitano “a non avere più paura”, e siamo all’inizio; e poi “vogliamo lo stato islamico”. Un bel salto… «La prima manifestazione che vediamo nel film è del 2011. Musulmani e cristiani insieme chiedono libertà. La manifestazione dove si chiede uno stato islamico, è del 2013 dopo un massacro commesso con armi chimiche dal regime nei sobborghi di Damasco. Nel frattempo, ci sono state centinaia di migliaia di siriani uccisi, feriti, incarcerati, torturati, sfollati, senza alcuna prospettiva che giustizia venga fatta. Il nodo è qui».