Definire leggendario “Il teatro delle marionette” di Heinrich von Kleist non è eccessivo. Tuttavia, sottraendosi a qualunque tentativo definitorio, che appare in partenza destinato al fallimento, esso si lascia cogliere come marcatamente allusivo, e, proprio per questo, evocativo in sommo grado.

Definire leggendario “il teatro delle marionette” di Heinrich von Kleist non è eccessivo. Tuttavia, sottraendosi a qualunque tentativo definitorio, che appare in partenza destinato al fallimento, esso si lascia cogliere come marcatamente allusivo, e, proprio per questo, evocativo in sommo grado. È un racconto? No, perché manca anche un minimo di trama o di intreccio narrativo. È un apologo morale? Neppure, perché esso non ha intenzione di fornire – né la fornisce - alcuna morale. Si tratta allora forse di una narrazione filosofica? Per nulla, per quanto molte e raffinate siano le sollecitazioni filosofiche che ne originano. Di cosa parliamo allora, quando desideriamo interpretare questo testo di Von Kleist, che Thomas Mann ebbe a qualificare come “una gemma di estetica metafisica”?

Nessuno può affermarlo con certezza, dal momento che il geniale scrittore tedesco ci ha lasciato qui pochissime ma densissime pagine, che, nonostante ogni lodevole tentativo, permangono come adagiate nel grembo di un mistero e che perciò si prestano ad interpretazioni multiformi – etica, filosofica, perfino teologica – ma senza che ne sia reperibile una capace di esaurire il senso non solo delle cose che egli ci dice, ma soprattutto di quelle che tace, lasciandole alla nostra attitudine a comprenderle. In realtà, non credo di errare affermando che questo “Teatro delle marionette” – al pari dell’Oracolo di Delfi - non afferma nulla e non nega nulla, limitandosi a significare.

Già. Ma cosa significa? E soprattutto cosa significa per il giurista?

Proviamo a pensare con la necessaria attenzione.

Innanzitutto, va notato che non esiste un contesto narrativo: non ci sono cioè riferimenti estrinseci di carattere temporale o spaziale all’interno dei quali collocare il testo. Ne viene che ogni parola naviga, per dir così, in una atmosfera rarefatta perché intemporale e del tutto alocalizzata ( tranne l’indicazione di un non- luogo, evidenziato con M.) , vale a dire compiutamente metafisica.

Non solo. I due personaggi che dialogano sono senza volto e senza nome, se si eccettua il primo ballerino di un teatro, nominato con la semplice iniziale di C. Tutto questo ci dice probabilmente che a dialogare non sono due personaggi inventati dalla fantasia dell’autore, perché appunto qui non ci sono personaggi di sorta: a dialogare siamo noi stessi con la nostra coscienza. E qual è – per Von Kleist – il senso complessivo di questo dialogo? È la Grazia, che possiamo benissimo intendere come perfezione dei corpi e, attraverso i corpi, dell’anima.

Infatti, C. – primo ballerino che si presume celebre ed affermato - – suscita la sorpresa del suo interlocutore, perché si è recato ad assistere alla rappresentazione di un teatro delle marionette in un parco pubblico, invece di restare davanti allo specchio a provare e a riprovare i passi di danza che avrebbe dovuto presentare al pubblico.

C. risponde che nulla come le marionette riesce ad attingere la assoluta perfezione della Grazia: un danzatore può sbagliare un movimento – e allora il suo centro di gravità si troverà addirittura fuori dall’asse corporeo ( perfino, che orrore!, egli lamenta, nel gomito ) - ma una marionetta, sol che i fili siano tirati con la dovuta casualità, non sbaglierà mai. Insomma, mentre la marionetta è esattamente come deve essere e si muove esattamente come deve muoversi, l’uomo non riuscirà mai ad attingere questa assoluta perfezione, ma è destinato a vedere appassire la propria vita nel vano tentativo di raggiungere una Grazia che per lui avrà sempre le porte sbarrate.

Egualmente, per l’orso sfidato ad un assalto di scherma da un abile spadaccino: l’orso non abboccherà mai alle rapide finte di questi, semplicemente perché non sa neppure cosa sia una finta, finendo col parare tutti i colpi e battere inevitabilmente il suo avversario. E ciò perché, spiega C., “… solo Dio potrebbe misurarsi in questo campo con la materia: e questo è il punto il cui i due estremi dell’anello del mondo si congiungono”.

Come dire che essere e dover- essere coincidono perfettamente senza residui solo in Dio e nella materia bruta, esemplificata qui dalle marionette o dall’orso: l’Uno e gli altri rappresentano la perfezione della Grazia.

L’uomo, invece, no. Egli è condannato a vagare in perpetuo fra la propria imperfezione e il tentativo di superarne i limiti: la Grazia resta un miraggio. Tuttavia, in questa irrisolta medietà, colta peraltro benissimo anche da Pascal ( ni ange, ni béte…), va collocato lo spazio proprio della giustizia. Compito della giustizia – anche se non soltanto della giustizia ( pure l’arte segue il medesimo destino: ma non è stato forse detto che il diritto è “ars boni et aequi” ? ) - è infatti colmare la frattura esistente fra essere e dover- essere, alimentando la libertà umana nel tentativo di riportare il primo, pur con le sue inevitabili cadute, alle indefettibili esigenze del secondo. La Grazia, anche se irraggiungibile nella sua pienezza, sollecita l’uomo, lo vivifica, gli mostra un sentiero di salvezza.

Ecco perché la giustizia, impegnata in questo compito essenziale – quello di ricondurre ciascuno di noi alla perfezione della Grazia – orienta l’agire dell’uomo, gli conferisce un senso, invitandolo a perseguirlo: essa appunto non dice e non nega, ma significa. Il giurista lo sa. Sa che – da questo punto di vista - ogni uomo non è che un tragico intervallo, un abisso di dolore, ma anche di vita e di speranza, gettato fra l’essere e il nulla, troppo meno dell’essere, troppo più del nulla; e che per questo deve restare fedele, a qualunque costo, alla giustizia, il solo sentiero percorribile. Come ribadiva S. Tommaso e nonostante ogni inciampo, homo capax Dei: se lo avessimo dimenticato, Von Kleist ci aiuta a ricordarlo.