Certo, si tratta di una tipologia di detenuti, e di condannati, del tutto particolare: persone giudicate colpevoli di mafia, terrorismo, eversione e strage. Quando nel 2012 un emendamento, presentato dall’allora senatore leghista Massimiliano Fedriga - oggi governatore del Friuli - rivolse la scure della legge Fornero anche su pensionati e disoccupati che avessero maturato i benefici in virtù di attività «illecite» o «di copertura», la misura parve incontestabile.

Negli anni però, dopo che il ministero della Giustizia ha messo a disposizione dell’Inps l’elenco dei condannati in via definitiva per quei gravi reati, l’applicazione ha finito per generare più di un paradosso. I provvedimenti di revoca e sospensione dei trattamenti previdenziali e assistenziali, incluse le pensioni di invalidità, sono stati sospesi e poi revocati a molti detenuti la cui condanna era passata in giudicato ben prima che la riforma Fornero venisse approvata. Si è generato un effetto retroattivo assai più pesante e giuridicamente incisivo di quello che pure la legge del 2012 ha testualmente previsto di escludere. Al comma 61 dell’articolo 2, infatti, si era stabilito che la revoca non avrebbe avuto «effetto retroattivo» . Principio evidentemente riferito solo agli assegni ricevuti prima della revoca o sospensione, ma senza alcun rilievo riguardo all’epoca in cui i reati erano stati commessi.

Pur se si tratta di persone condannate per reati gravi, si è creata dunque un’oggettiva di incertezza del diritto, dovuta anche alla sovrapposizione dei contributi versati nell’ambito di attività illecite o fittizie a quelli maturati in virtù dell’attività svolta proprio all’interno degli istituti di pena (e retribuita con compensi bassissimi). Da qui è venuta la decisione di una giudice del lavoro del Tribunale di Fermo, Elena Saviano, che ha rimesso alla Corte costituzionale la norma della Fornero relativa ai detenuti per mafia e terrorismo. La giudice ha ritenuto rilevante nel giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimità del ricordato articolo 2 comma 61 della legge 92 del 2012.

A sollevarla è stato un avvocato del Foro dell’Aquila, Fabio Cassisa, nel ricorso proposto in difesa di un detenuto che si trova in condizioni ancora più particolari: sconta la pena per reati di mafia ma è ai domiciliari, è collaboratore di giustizia, e oltretutto percettore di pensione d’invalidità civile. Circostanze che chiamano in causa un contrasto non solo con l’articolo 25 della Costituzione, ossia con il principio di irretroattività, ma anche con l’articolo 38, che garantisce a tutti i lavoratori i trattamenti previdenziali, e con il principio di uguaglianza sancito all’articolo 3, considerata l’assimilazione nella stessa logica sanzionatoria di detenuti che si trovano comunque in una condizione specifica qual è quella dei collaboratori di giustizia.

Pesa in particolare la contestazione relativa agli effetti retroattivi della revoca dei trattamenti. Come sostenuto nel suo ricorso da Cassisa, «la revoca delle prestazioni di soggetti già condannati con sentenza definitiva al momento dell’entrata in vigore della legge violerebbe il principio di irretroattività della legge penale, dovendo essere riconosciuta a tale sanzione amministrativa natura sostanzialmente penale ed essendo indubbio che il divieto di retroattività previsto dalla Costituzione si applichi anche alle sanzioni amministrative accessorie alla sanzione penale principale». Un vulnus difficilmente controdeducibile. Sul quale sarà la Consulta a pronunciarsi.