Leggere Hemingway Viviamo in un'epoca in cui è difficile distinguere il vero dal falso. Le fakenews si annidano ovunque e alimentate dai social anche le notizie false assumono lo statuto di oggettività.

Ma la colpa non è solo di chi mente a proposito ma di un sistema mediatico che ha perso la bussola, riducendo notevolmente il rapporto con la realtà.

Ripensando alla vita e all'opera di Ernest Hemingway, il primo elemento che colpisce è invece il suo assiduo corpo a corpo con la realtà, con il toccare con mano ciò che scriveva.

Il grande scrittore statunitense, nato a Oak Park ( Chicago) il 21 luglio di 120 anni fa, nella sua attività sia di giornalista che di scrittore non si è mai risparmiato. Voleva vedere, sapere, partecipare. Una attività che lo ha portato in giro per i mondo e che alla fine ha martoriato il suo corpo per i vari incidenti.

Si suicidò il 2 luglio del 1961, dopo anni di spostamenti e di paranoie, come quella di essere spiato dall'Fbi. Ma quanto era bulimico di conoscenza diretta tanto era asciutto, sintetico, perfetto nello scrivere: le sue frasi erano pensate, viste e riviste. Niente era affidato al caso.

Se fosse vissuto oggi, molto probabilmente, avrebbe considerato il mondo dei social, in cui le frasi vengo molto spesso gettate alla rinfusa, come una diavoleria da cui fuggire come gli odiati agenti dell'Fbi. I quali, peraltro, pare che davvero gli dessero le caccia.

Per chi suona la campana Appena diciottenne Hemingway tentò di arruolarsi per andare a combattere nella Prima guerra mondiale. Non ci riuscì a causa di un difetto della vista, ma poté comunque dare il suo contributo come autista della ambulanze.

In quegli anni si spostò tra la Francia e l'Italia e quando tornò negli Usa, a guerra finita, andò in giro a raccontare l'orrore a cui aveva assistito. La sua carriera letteraria è appena iniziata. Ma la strada è segnata dalla passione.

Sa cosa vuole, sa che la scrittura per lui è molto importante. Sono gli anni in cui inizia la collaborazione con il Toronto star e in cui scrive i primi racconti. Ma la vera svolta è quando si trasferisce a Parigi con la prima moglie. Lì conosce Gertrude Stein, James Joyce, Ezra Pound ed altri esuli americani che nel suo libro postumo Festa mobile definì la generazione perduta.

È in questo clima di avanguardie che sviluppa il suo stile: oggettivo, paratattico, sintetico. Per noi oggi un classico, un esempio. Allora, questo signore che le foto ci restituiscono spesso imbolsito, con la barba e la postura molto altisonante, scriveva come una farfalla, facendo a pezzi la tradizione letteraria precedente. L'impegno anche politico, che lo porterà ad essere in prima linea nella guerra civile spagnola, non diventa mai prosopopea letteraria, autoreferenzialità.

Nel 1926 pubblica The sun also rises dedicato alla fiesta di San Firmino a Pamplona. I protagonisti sono americani e inglesi che vivono tra la Francia e la Spagna: è l’ambiente che vive intorno a Gertrude Stein in cui si afferma la libertà femminile.

Tra i personaggi spicca infatti la volitiva Lady Brett Ashley: porta i capelli corti e vive la sessualità senza pregiudizi o paure. Niente male per uno scrittore che spesso viene identificato con il maschilismo. Effettivamente si faceva chiamare Papa, ma pare che questo soprannome derivasse più dalla sua grandezza come scrittore che da pose machiste.

Ciò che ora conta è che leggendo Hemingway si respira l’ambiente letterario e umano di quell’epoca: si impara ad amarlo, a toccarlo con mano. La stessa passione per la storia che traspare da Per chi suona la campana, forse il suo libro di maggior successo, che pubblicato nel 1940 ha come protagonista Robert Jordan.

Il racconto si basa sulla sua esperienza di cronista di guerra nelle file dell’esercito popolare repubblicano. Il titolo è ripreso da un verso di John Donne, che dice: «... E allora non chiedere per chi suona la campana, essa suona per te».

È il richiamo all’impegno, alla battaglia per l’uguaglianza, a una letteratura che si sente invischiata e responsabile per le cose del mondo. Quel verso, quel monito, quel romanzo sono entrati nell’immaginario collettivo di intere generazioni vissute con il mito della libertà dei popoli e della loro uguaglianza. Il film di Sam Wood, con due attori incredibili come Gary Cooper e Ingrid Bergman, ne sancì il definitivo trionfo.

Il bivio: avere o non avere Il tema della diseguaglianze appare già nel libro di tre racconti Avere e non avere, in cui compare la sua amata Cuba dove passa molto tempo e a cui guarderà con attenzione durante e dopo la rivoluzione.

Osservato con sospetto negli Usa maccartisti, Hemingway vince con Il vecchio e il mare il premio Pulitzer nel 1953 e l’anno dopo il premio Nobel. Pare abbia commentato: «Troppo tardi».

È vero che gli amanti della sua opera non considerano Il vecchio e il mare come il suo romanzo migliore, ma resta comunque un libro che incanta per la sua essenzialità e la sua capacità di farci entrare nella testa e nella vita del protagonista.

Il vecchio pescatore Santiago ingaggia nel mare cubano una lotta con il pesce più grande che abbia mai incontrato. Non lo odia, lo ama. Sono due vinti. E il vecchio lo sa. E infatti pur avendolo catturato, se lo vede portare via dagli squali che lo mangiano durante il viaggio. A terra non arriva che la lisca. Sono gli squali i veri nemici, i potenti. Non il vecchio, non il grande pesce.

Lo stesso Hemingway raccontò che il vero sforzo nello scrivere il romanzo non fu costruire la storia. Ma limarla. Levare. Non aggiungere. Odiava essere prolisso. E il foglio di carta su cui aveva steso la storia era pieno di segni, non perché correggeva, ma perché asciugava.

Il finale di Addio alle armi lo scrisse 47 volte. E quando gli chiesero perché, rispose: «Per trovare le parole giuste». Il vecchio e il mare è oggi considerato un classico, un libro che tutti dovrebbero leggere. E in fondo di personaggi come Santiago abbiamo ancora bisogno. Perché Santiago perde, ma lotta. Santiago perde contro gli squali ma torna a terra soddisfatto perché sa che nella sua vita non si è arreso. Ha perso ma combattendo.

A volte i vincitori in realtà perdono sul palcoscenico della storia. I vinti restano nei nostri cuori per sempre. E Hemingway non solo lo sapeva, ma lo sapeva raccontare.

La vita le opere: fu machista? Parlare della vita e delle opere di Hemingway fa saltare la convinzione che deriva dalla critica poststrutturalista che i due piani debbano correre paralleli. L’opera è l’opera, la vita è la vita.

Ma qui stiamo parlando di un autore che giocava in prima persona, che fino all’ultimo viaggiava tra le Americhe, l’Europa e l’Africa e che continuava a scrivere, accanto ai romanzi, i suoi reportage, come agli esordi.

Grande bevitore, lo scrittore di Festa mobile, si sposò quattro volte ed ebbe diverse amanti. Fernanda Pivano, sua amica, descrisse la quarta moglie Mery come una “geisha”: era in realtà una giornalista, anche lei impegnata a scrivere reportage, che non lo aspettava a casa mentre lui andava in giro per il mondo.

Se si parla di Hemingway si pensa prima di tutto all’amore per le corride, alla caccia e alla pesca. Un identikit che si è cristallizzato nell’idea che fosse machista. Ma tanti fattori, a partire dalle sue opere e dalle sue protagonista, fanno pensare il contrario.

Un libro del nipote John ricostruisce il suo amore per i giochi di ruolo, una sorta di transessualità che fu preponderante nella vita del figlio di Hemingway, padre dell’autore dello scoop, il quale lascia trapelare anche la notizia di alcuni rapporti gay del nonno.

Negli anni la voce sul suo amore fisico per i toreri è tornata più volte. Viene fuori il ritratto complesso anche della biografia personale e lo spaccato di uno scrittore tutt’altro che chiuso negli stereotipi.

Ma, poi, forse avevano ragione i poststrutturalisti e ciò che resta sono i suoi libri. Racconti di un’epoca che emozionano ancora oggi.