Ci ho messo un po’, viste le mie radicate abitudini e i quasi sessant’anni di mestiere giornalistico, tra volontariato, praticantato e professionismo, ma alla fine ce l’ho fatta, riuscendo peraltro a ridurre il tempo riservato ai quotidiani.

Ho deciso di non leggere le più o meno fluviali pubblicazioni delle intercettazioni, e brogliacci, degli incontri, colloqui, sospiri, racconti, allusioni e quant’altro del magistrato Luca Palamara a telefonino imprudentemente acceso. Esso ha trasformato l’utente, per una specie di virus elettronico iniettatogli per ordine della Procura di Perugia e chiamato “Trojan” con gusto omerico, da indagato per corruzione e non so quanti altri reati in una spia. Che, data l’inconsapevolezza dell’interessato, durata non moltissimo per la soffiata che lo ha allertato ma abbastanza per produrre effetti mediaticamente, politicamente e giudiziariamente dirompenti, è qualcosa di più di un infiltrato.

Per fortuna siamo lontanissimi dagli anni della peste a Milano raccontata da Alessandro Manzoni nei suoi storici Promessi Sposi. Altrimenti Palamara, miracolosamente ancora libero, vista la facilità con la quale in Italia si può finire agli arresti “cautelari” durante le indagini, per quanti tentativi siano stati compiuti per limitarli dopo la scoperta degli abusi specie nell’epopea giudiziaria, come molti ancora la considerano, di Mani pulite; altrimenti Palamara, dicevo, sarebbe finito linciato in pieno giorno dietro l’angolo di casa come un untore dalle vittime incolpevoli delle sue frequentazioni e amicizie, di qualsiasi grado e natura.

Il colpo di grazia alle mie tentazioni di lettore, cioè alla mia curiosità, me lo ha dato il sommarietto di prima pagina e il contenuto, all’’ interno del Fatto Quotidiano, di una conversazione di Palamara captata il 21 maggio scorso, in un bar romano vicino a Piazza Fiume, con un prelato abbastanza famoso e autorevole: il monsignore Vincenzo Paglia, dal 2016 presidente della Pontificia Accademica per la Vita e già vescovo di Terni. Meno male - c’è da dire da fedele pur facile al peccato- che Palamara non abbia avuto modo di conoscere Papa Francesco e di essere ammesso alla sua presenza, munito di quel diabolico telefonino, nella residenza di Santa Marta. Chissà che cosa si è risparmiato il Pontefice, con quella voglia che ha - benedett’uomo- di informarsi e con quella franchezza con la quale esprime i suoi giudizi su cose e persone. Ne sa qualcosa il povero allora sindaco di Roma Ignazio Marino, mandato quasi grillinamente a quel posto dal Papa parlandone in aereo con i giornalisti al ritorno da un viaggio all’estero, dove il predecessore di Virginia Raggi l’aveva raggiunto mostrando di essere stato invitato.

Ma torniamo al povero monsignor Paglia, colpevole solo, nell’incontro al bar con un Palamara che gli parlava dei problemi personali e di quelli del Consiglio Superiore della Magistratura, letteralmente terremotato poi dal suo “Trojan”, di essersi fatto vincere dalla curiosità di conoscere umori, reazioni e quant’altro del presidente della Repubblica, e dello stesso Csm, Sergio Mattarella di fronte al problema della nomina del nuovo capo della Procura di Roma, dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone. Forte anche del pur breve periodo in cui da membro togato del precedente Consiglio Superiore della Magistratura aveva avuto modo di vederlo all’opera, fra il 2015 e il 2018, Palamara ha detto all’amico monsignore, testuale nel sommarietto di prima pagina del Fatto Quotidiano: “Mattarella non è Napolitano”. Mi riferisco naturalmente a Giorgio Napolitano, il predecessore dell’attuale capo dello Stato, affettuosamente noto agli italiani anche come “Re Giorgio” per una certa somiglianza giovanile, da lui stesso ironicamente ricordata più volte parlandone in pubblico, con Umberto II di Savoia, l’ultimo sovrano d’Italia.

Avete capito che grande novità, che clamorosa sorpresa ci ha procurato l’invasivo “Trojan” con cui parla, viaggia e persino dorme, se lascia il telefonico acceso sul comodino o sulla poltrona dove si appisola, questa mina vagante che è diventata l’ex, peraltro, presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Palamara? Abbiamo scoperto che Mattarella “non è Napolitano”. Incredibile ma vero.

A noi giornalisti, forse pennivendoli prima ancora che così ci chiamasse in uno dei suoi inarrestabili scatti d’ira Ugo La Malfa, condannati a raccontare la politica nel dritto e nel rovescio, davanti e dietro le quinte, è sfuggito il particolare rilevato da Palamara. Ci è sfuggito, o abbiamo avuto riguardo o paura di scriverne, anche quando, per esempio, abbiamo dovuto seguire l’anno scorso la gestione della lunga crisi di governo, in apertura della diciottesima legislatura uscita dalle urne del 4 marzo: due giri di consultazioni a vuoto, due missioni esplorative anch’esse a vuoto, l’annuncio dell’imminente conferimento dell’incarico a un tecnico per una soluzione di decantazione, l’avvio autonomo e non disposto da alcun decreto presidenziale di trattative di governo fra grillini e leghisti, il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Giuseppe Conte, la rinuncia di quest’ultimo, le minacce di impeachment del capo dello Stato da parte del capo del Movimento delle 5 stelle e candidato alla vice presidenza del Consiglio, Luigi Di Maio, il conferimento del nuovo incarico all’economista Carlo Cottarelli, la nuovamente autonoma decisione di Di Maio e di Salvini di riaprire le loro trattative per trovare un Ministro dell’Economia gradito anche al Quirinale, la rinuncia di Cottarelli e il reincarico a Conte.

Neppure allora a noi giornalisti venne la voglia, l’intuizione, il coraggio, chiamatelo come volete, di dare la notizia scoperta e fornita da Palamara all’amico monsignore: che cioè Mattarella, ripeto, non è Napolitano. Preferibile o no, poco importa. Non è Napolitano. E tanto deve bastare, e avanzare.