FRANCESCO PETRELLI*

Io penalista chiedo. Nessuno avrebbe voluto aprire quella porta. Epistemologicamente parlando si è evidentemente trattato di un caso di serendipità: si sta cercando una cosa e se ne trova un’altra. La Procura perugina indagava su una ipotesi di corruzione e ha trovato invece l’accesso a un mondo sommerso della magistratura. La questione non è irrilevante perché la preterintenzionalità della “scoperta” mette in imbarazzo scoperti e scopritori. Non sono i fatti in sé, ma il modo con il quale ci si presentano, a metterci in guardia e suggerirci di non dimenticare che si tratta proprio di quelle modalità da tempo denunciate quali sintomi gravi di una degenerazione della macchina mediatico- giudiziaria: intercettazioni oculatamente dispensate al pubblico in barba al segreto, dialoghi privi di rilevanza probatoria estrapolati dai contesti e diffusi all’orbe terraqueo, gogne mediatiche a intermittenza; e poi testimoni, indagati, soggetti estranei, dialoganti per caso, tutti catturati assieme dal temibile e ubiquo strumento captatore; per non dire, infine, di come gli equilibri interni del Csm risultino oggi di fatto modificati, con la formazione di una nuova maggioranza - come nel peggiore degli italici scenari - per “via giudiziaria”.

Messi sul tavolo operatorio tutti questi elementi farebbero, dunque, propendere per una prognosi infausta. Una riforma seria sembra improbabile. Cercare di risolvere, infatti, un problema con quegli stessi strumenti che l’hanno prodotto apre spesso la via al fallimento. Il rischio che la ferita si richiuda su una piaga ancora infetta è molto alto, mentre risulta evidentemente improrogabile una vera riforma che re- integri il sistema giudiziario all’interno di nuovi equilibrati vincoli ordinamentali. Si tratta ovviamente di decidere cosa siano un giudice e un pm “integrati” nel sistema, non potendo esistere alcun magistrato che, per quanto collocato in una posizione di autonomia e di indipendenza, non sia comunque pensato come parte integrante di un sistema politico- istituzionale, organicamente collegato con gli altri poteri dello Stato.

Trattando la questione con la diffidenza che opportunamente deve muovere l’investigatore rispetto ai risultati emersi in maniera accidentale, ciò che viene da chiedersi è se il livello venuto a emersione sia il vero aspetto problematico della magistratura del Paese, se sia davvero il ritratto di quella degenerazione correntizia che da anni si va denunciando e che ci fa dire “già tutto si sapeva”. O se non si tratti piuttosto dei sintomi di una fase ancora successiva, che non nega quel fenomeno, ma che nel confermarlo ne svela uno sviamento ulteriore e più grave. Un asservimento dei meccanismi spartitori ad esclusivi interessi particolari e personali. Tramontata l’epoca delle ideologie, non sono più il ruolo della magistratura nella società o i suoi eventuali fini di giustizia sociale, né le riflessioni sui diritti e le garanzie dei cittadini o le grandi scelte di politica giudiziaria, i temi del conflitto, ma la gestione di quell’enorme potere, oramai frammentato, nudo e crudo, che la magistratura italiana, dotata di una autonomia e una indipendenza che non hanno eguali, gestisce da tempo con il consenso complice della politica. Una sorta di “secondo stadio” degenerativo nel quale quel potere terribile è addirittura sfuggito di mano tanto alla politica quanto alla magistratura.

I due diversi livelli patologici, terribili e temibili entrambi per le sorti della nostra già fragile democrazia, non devono essere confusi. Sotto un profilo clinico curare il sintomo degenerativo e lasciare intatta la patologia che l’ha prodotto sarebbe davvero un errore assai grave. Occorre quindi risalire alle radici più remote dello squilibrio e rimuoverne le cause attraverso riforme radicali. Potenziare il ruolo del giudice significa già restituire al pubblico ministero quel ruolo di parte che un sistema accusatorio presume come precondizione del suo funzionamento, e che invece la mancanza di un seria riforma ordinamentale ha consentito che divenisse negli anni la pietra dello scandalo dei ricatti incrociati delle correnti e dei partiti. Non compensate da alcun intervento regolatorio legislativo sull’esercizio dell’azione penale e da alcun serio investimento culturale e normativo sulla figura del giudice, le Procure sono così diventate organismi bulimici, gonfi di un indebito potere di regolazione delle politiche giudiziarie e, al tempo stesso, democraticamente asfittiche. Fare ordine in questo intreccio significa restituire coerenza e trasparenza al sistema.

Occorre in tal senso distinguere i poteri disciplinari e di regolazione delle carriere dei giudici e della magistratura requirente, modificare su base territoriale il sistema elettorale all’interno di due diversi Csm, tenere separati il potere esecutivo e quello giudiziario nelle amministrazioni, evitando commistioni e scambi osmotici fra politica e magistratura all’interno dei Ministeri, restituire al Parlamento la regolamentazione per legge dei modi dell’esercizio dell’azione penale. Se la magistratura non è in grado di operare alcuna autoriforma, né la politica da sola ha in questo momento le risorse per mettere in cantiere un progetto di riforma serio e di più ampio respiro, solo aprendo un tavolo e riunendo attorno ad esso tutte le risorse dialoganti dell’avvocatura penale e della magistratura, sarà possibile porre le basi di una riforma davvero radicale e, in quanto tale, lungimirante. Non è detto infatti che ciò che è avvenuto per caso non possa fornire un’opportunità per rimediare ai tanti errori accumulati nel passato.

* avvocato penalista