La sensazione è che Matteo Salvini non riesca a fare a meno della procedura europea d’infrazione per debito eccessivo. Ogni volta che Giovanni Tria prova a rassicurare la Commissione europea sulla solidità dei conti pubblico, il vice premier tira una bordata contro Bruxelles.

Per tutta la giornata di ieri, il ministro dell’Economia ha inviato segnali tranquillizzanti alla Commissione. Andati in fumo per una battuta di Salvini: “Non siamo più nel Medioevo. Facciamo parte di un club, l’Europa ci chiede atti di genuflessioni costanti”. E la vendetta di Bruxelles non si è fatta attendere. L’Esecutivo europeo ha deciso ieri di rinviare al 2 luglio la scelta se confermare o meno l’avvio della procedura d’infrazione. A prima vista, può sembrare il rinvio può sembrare un dato positivo. In realtà, non è così. Il prossimo 2 luglio, la Commissione si riunirà a Strasburgo per la prima seduta del nuovo Parlamento europeo. Insomma, il “caso Italia” sarà sotto gli occhi di tutti gli europarlamentari.

E pensare che Bruxelles sembra ben disposta nei confronti dell’Italia. In primo luogo, ha fatto sapere che – nel disgraziato caso dovesse partire la procedura – l’Italia avrà sei mesi di tempo ( e non tre) per dimostrare che il debito pubblico diminuirà nel 2019. Il motivo di questa “generosità” è abbastanza chiaro.

Da un punto strettamente aritmetico, l’Italia sarebbe nelle condizioni di evitare la procedura. Il Mef, infatti, sta calcolando le maggiori entrate determinate dalla fattura elettronica. Dovrebbero aggirarsi intorno ai 3/ 5 miliardi. Somme che vanno conteggiate sia in riduzione del deficit strutturale e sia in aumento dell’avanzo primario: si tratta dell’indicatore usato come parametro dalla Ue per la riduzione effettiva del debito. Il dato si ottiene sottraendo le spese all’ammontare delle entrate, al netto della spesa per interessi. Per rispettare le regole europee sul debito dovrebbe essere superiore al 3% del pil; il governo Conte lo ha fissato all’ 1,4% del pil. E con i 3/ 5 miliardi in più della fattura elettronica si arriverebbe all’ 1,8% del pil.

Al Tesoro avevano in animo di portare a riduzione del deficit strutturale anche le somme non spese per il redito di cittadinanza e per “quota 100”. In realtà, per accontentare Salvini, Tria ieri ha detto che queste somme non verranno conteggiate direttamente nel Bilancio di assestamento, oggi all’esame del consiglio dei ministri. Al ministro avrebbero fatto comodo quei 3 miliardi in più di mancate spese. Ma i vice premier sono stati inflessibili sui rispettivi argomenti di bandiera. Con il risultato che Tria si dovrà inventare qualche escamotage giuridico e lessicale per informare la Commissione che quelle cifre non verranno spese, ma che non possono essere ancora contabilizzate in bilancio.

Tant’è che il ministro è stato costretto a confessare: “Stiamo vedendo in che modo dimostrare alla Commissione europea che questi risparmi esistono”. Una cosa è certa – ha detto il ministro – “li manteniamo come risparmi e non saranno utilizzati”. Con buona pace di Salvini che li voleva usare a copertura della flat tax ( che flat non sarà) e di Di Maio che li voleva impegnare per sgravi fiscali alle famiglie.

Il ministro, poi, fa un atto di fede ed annuncia che quest’anno il deficit nominale si fermerà al 2,1%. Molto probabilmente considera un contributo alla riduzione del parametro anche il gettito delle diverse rottamazioni ( superiore alle attese) e le una tantum fiscali versate da Gucci. Il problema è che si tratta di entrate “una tantum”; e, come tali, non conteggiate nel deficit strutturale.

Ma tanto basta per arrivare alla data fatidica del 2 luglio, quando i conti pubblici nazionali saranno protagonisti ( in negativo) della prima seduta dell’Europarlamento, vista la scelta della Commissione europea di riunirsi a Strasburgo. Fino a quel giorno, Tria argomenterà le proprie ragioni a Bruxelles: tutte nella direzione che l’Italia non merita la procedura per debito eccessivo. Poi, se la procedura scatterà o meno lo deciderà l’Ecofin del 9 luglio. Ma lì, la scelta sarà politica. Proprio quello che vuole Salvini. Per rompere o meno la maggioranza ha ancora quasi un mese a disposizione.