Al carcere di Pianosa ci sono «metodi di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntati al rispetto della persona ed i principi di umanità». A rivelarlo - denunciando pestaggi, violenze fisiche, ma anche psicologiche -, fu l’allora magistrato di sorveglianza di Livorno, il dottor Rinaldo Merani. Parliamo del 5 settembre 1992, in pieno emergenzialismo scaturito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Si parla tanto della famosa lettera dei familiari detenuti al carcere di Pianosa inviata a tutte le personalità dello Stato per denunciare le vessazioni nei confronti dei reclusi nel carcere speciale. Lettera che più volte viene indicata come una delle prove della presunta trattativa Stato mafia. Ma in tutte le discussioni e libri sull’argomento, non si fa quasi mai menzione che a denunciare il mancato rispetto dei principi costituzionali fu un magistrato, serissimo, dedito al suo lavoro di sorveglianza.

«Nel corso della permanenza in sezione – così scrive Merani nel rapporto del 1992 – si è notato l’utilizzazione di metodiche di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntate nel rispetto della persona e principi di umanità». E fa un elenco di casi che cristallizzavano talune violenze. Parla di detenuti, che nel camminare, vengono obbligati a tenere la testa bassa e lo sguardo fisso per terra, oppure «al momento in cui i ristretti vengono inviati al cortile di passeggio, aperta la porta che vi dà accesso, devono andare di corsa sino ad infilarsi nel corridoio che conduce al cortile» e sottolinea un episodio emblematico: «Di tale pratica si è chiesto conto ad uno sottoufficiale che ha risposto, per verità molto seccato e iattante, che trattatasi di scelta dei detenuti: il che francamente appare quanto meno poco credibile».

Ma il magistrato va oltre e denuncia un fatto oscuro. «Si è avuto notizia – scrive Merani – che due detenuti sono stati recati fuori della sezione, l’uno interno alla carriola da muratore, certamente non in grado da camminare da solo, l’altro ammanettato e trascinato per le braccia: entrambi venivano portati verso il blocco centrale dove non è dato sapere cosa sia successo poi». Ma poi continua denunciando un episodio di violenza. «Si è altresì avuto notizia – scrive il magistrato nel rapporto del 5 settembre del ’ 92 – dell’uso dei manganelli all’interno della sezione, evidentemente non in relazioni a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’Ufficio da parte della Direzione: i manganelli sarebbero stati adoperati sia per sollecitare le gambe dei detenuti negli spostamenti all’interno della sezione, sia per effettuare veri e propri pestaggi in celle».

L’allora magistrato di sorveglianza ha voluto sottolineare sempre nel rapporto che «altri episodi di iattanza e violenza, psichica più che fisica, nonché una serie di umiliazioni tanto inutili quanto ingiustificate, sono state inflitte ai detenuti comuni impegnati nei lavori di ristrutturazione della diramazione».

Il magistrato Merani, sempre nel suo rapporto, ha scritto chiaro e tondo che «il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose» e aggiunge che «non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione». Ricordiamo che sia il carcere di Pianosa che quello dell’Asinara, furono riaperti nei primi anni 90. In quel momento particolare della vita dello Stato, per stroncare sul nascere quello che fu definito l’attacco della mafia al cuore dello Stato, il regime del carcere duro, ossia il 41 bis, rappresentò la risposta più dura e radicale da parte delle istituzioni.

A seguito del verificarsi della strage di Capaci e di Via D’Amelio, il governo di allora, in piena emergenza, varò il decreto legge n. 306/ 1992, che introduceva il secondo comma all’art. 41 bis. Contestualmente, nel giro di qualche giorno, furono immediatamente riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, che fino a quel momento avevano avuto funzioni di colonie agricole, adatte più ad una popolazione detenuta di livello attenuato di sorveglianza. Quando venne barbaramente ammazzato Borsellino, la risposta dello Stato fu dura e vennero trasferiti in massa tutti i detenuti mafiosi nelle carceri speciali. Diversi ergastolani denunciarono le vessazioni e portarono il caso ( Sentenza Labita c. Italia, 6 ottobre 2000, n 26772/ 94) alla Corte europea dei diritti umani che dovette prendere atto che, in effetti, all’epoca dei fatti, nel carcere di Pianosa persisteva una situazione allarmante seppur di carattere generale. Solo nel 1997 venne chiusa, grazie all’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick.