Leggendo il piccolo – ma davvero prezioso – saggio di Giuseppe De Rita, “Il cimento del continuismo nelle turbolenze della discontinuità”, si prova il rammarico di non aver compulsato, con la necessaria attenzione, tutte le ricerche del Censis.

Questo saggio contiene una sintesi estrema, eppure efficacissima, di un pensiero della società italiana che in molti hanno trascurato.

La tesi di De Rita, in sostanza, individua nella storia italiana una linea di continuità interrotta, a cadenze temporali, da eruzioni di discontinuità, almeno sul piano politico.

Il fatto è che immancabilmente tutte queste discontinuità politiche si sono esaurite confermando, nel lungo periodo, una tradizionale e pervicace voglia di continuità.

Dal fascismo in poi – ricorda De Rita – è tutta un’esplosione di rivoluzioni e cambiamenti, destinati però a infrangersi contro il muro di un continuismo strutturale.

L’ultima manifestazione di discontinuità politica, quella che abbiamo ancora davanti ai nostri occhi, rischia di essere ricordata come una “discontinuità incompetente”, ultima tappa di un progressivo aumento della mediocrità del dibattito, dei protagonisti e del funzionamento del sistema.

A questo punto, De Rita non si rassegna alla presente condizione del nostro Paese, ma ci invita innanzitutto a prendere atto della realtà e dell’insopprimibile tendenza al continuismo, non per adattarci passivamente ad esso, bensì per valorizzarne gli elementi dinamici e positivi e “immettere in esso un sentimento del futuro, degli orizzonti di senso”.

L’aspetto più convincente di una società che, nonostante tutto, non è mai statica, nei fatti scorre in maniera costante e complessa, si manifesta nella progressiva trasformazione del nostro sistema di welfare, con la moltiplicazione d’iniziative locali, sia nel welfare integrativo, sia nel welfare categoriale.

De Rita, al termine, propone “un ambizioso e paradossale – sue le parole – governo del continuismo di fatto. Forse l’unica vera possibilità di sottrarsi alla trappola dell’alternativa tra il rifiuto del continuismo, compresa però la sua componente socialmente dinamica, e l’inevitabile sbocco nella discontinuità incompetente di oggi o in quella dirigista e ideologica del passato. La domanda finale che il saggio sfiora è fino a che punto questo modello può salvarci dal declino incombente, soprattutto di fronte a cambiamenti internazionali che si organizzano sulla base di grandi potenze politiche ed economiche.

Questo interrogativo rimanda al futuro dell’Europa, che è una domanda tutta politica su cui siamo alle prese proprio oggi.