Il solito sciovinismo da parata, i soliti nasi arricciati, le solite manie di grandezza, il solito dispettuccio da cugini spocchiosi. Vista dall’Italia la mancata fusione (per ora) tra Fiat- Chrysler e Renault è solo l’ultimo sgarbo di una Francia che si imbelletta di retorica europeista ma che, alla fine, vive di capricci nazionali, di interessi privati. Una lettura trasversale, che accomuna forze politiche differenti, dal Pd a Forza Italia, da + Europa al movimento sovranista di Giorgia Meloni.

Ma le perplessità di Parigi, che ha chiesto tempo (cinque giorni) per valutare la convenienza della fusione, sono davvero così ingiustificate? Vista dall’altra parte delle Alpi, la vicenda appare in effetti più complicata; in molti parlano di un’operazione sconveniente per Renault e di un approccio al limite predatorio da parte del colosso italo- americano dell’auto. Inoltre c’è la questione con gli alleati giapponesi di Nissan che sembrano affatto entusiasti della possibile fusione.

L’atteggiamento di Fca che ha sbattuto la porta con un arrogante «prendere o lasciare» di sicuro non aiuta. «Fiat è molto indietro nell’innovazione tecnologica ambientale e ha tutto l’interesse nel fondersi con un gruppo che ha investito nell’auto elettrica e nella ricerca sui veicoli ibridi e all’idrogeno, avrebbe profitti immediati e potrebbe tagliare i rami secchi. Inoltre Exor, la holding degli Agnelli, otterrebbe la maggioranza relativa in cda. I dirigenti di Fca sono stati molto bravi a creare la narrazione del “campione mondiale dell’automobile”, ma l’operazione presenta rischi molto elevati», dice l’economista Bernard Julien sulle colonne di Libération.

Ancora più duro il popolare sito web Agoravox, che di fatto descrive i vertici di Fca come dei famelici avvoltoi «italo- yankee» pronti a mangiarsi uno dei fiori all’occhiello del made in France in un momento di grandi difficoltà, ovvero a ridosso dell’affare Ghosn (l’ex ad di Nissan- Renault arrestato lo scorso novembre a Tokyo per illeciti finanziari n. d. r.) che ha fatto precipitare il valore delle azioni del gruppo francese. «La Fiat è un brutto anatroccolo che produce macchine antiche come la 500 o riesuma vecchie glorie come le Alfa Romeo, la Chrysler sta in piedi soltanto grazie alla vendita di una mediocre jeep 4x4. In più per entrambi i gruppi la priorità sono i massimi profitti per gli azionisti, una filosofia lontana dalla tradizione industriale di Renault e del capitalismo francese».

Parole forti, quasi iperboliche, che però restituiscono il clima di diffidenza che in Francia circonda il possibile matrimonio tra i due colossi dell’automobile. Al punto che lo stesso governo di Parigi, favorevole a una fusione che immetterebbe capitali nelle casse di Renault, dopo aver gestito la prima fase delle trattative quasi in sordina, ha improvvisamente chiesto di prendere tempo, di valutare, di soppesare i pro e i contro. Gli stessi sindacati, pur non mettendosi di traverso, esprimono più di una preoccupazione e chiedono garanzie sul mantenimento 50mila posti di lavoro in Francia.

Il sentimento ostile che proviene dalla pancia del Paese nei confronti degli investitori “stranieri” cavalcato in particolare dal partito di marine Le Pen è, in tal senso, accolto anche da una parte delle élite come dimostra l’editoriale al vetriolo del quotidiano economico Le Echos che parla di una vera e propria «manna» per gli azionisti di Fca, i quali intascherebbero ben tre miliardi di dividendi in più rispetto ai “colleghi” di Renault.