La domanda è la stessa che ci si poneva prima dello shock elettorale, però a parti rovesciate. Non più "Reggerà la Lega a un'alleanza con soci che la bersagliano quotidianamente peggio di nemici giurati e che bloccano uno dopo l'altro i pezzi forti del Carroccio?" ma "Reggerà M5S a un accordo di governo nel quale sarà d'ora in poi costretto a masticare amarissimo da mane a sera?". A questa incognita e solo a questa è legato il futuro della legislatura.

Per i 5S la doccia è stata peggio che gelata. Erano convinti, sondaggi alla mano, di aver limitato il danno rispetto alle previsioni di qualche mese fa. Ritenevano di poter uscire dalla prova con perdite sensibili ma contenute e comunque di aver fugato i tre spettri che avevano spinto Di Maio a trasformare la campagna elettorale in una guerra contro i soci: un risultato al di sotto del 20%, un vantaggio a favore della Lega di oltre 10 punti percentuali e il sorpasso da parte del Pd.

Quei fantasmi si sono invece presentati tutti insieme e a braccetto nella notte di tregenda di domenica. Il colpo è stato tanto duro che, per la prima volta nella storia, un partito non se l'è sentita di mandare neppure un dirigente di terza fila a dichiarare in sala stampa. Ancora ieri mattina il silenzio dei pentastellati resisteva, plumbeo ed eloquentissimo. Come quello di un Giuseppe Conte forse più in imbarazzo di chiunque altro.

Quando poi, nel primo pomeriggio, si decide a comparire un Di Maio in buona forma, che specifica di aver già concordato la linea con tutti i dirigenti senza che nessuno chiedesse la sua testa. Il leader politico ammette la sconfitta ma punta a minimizzare il ribaltamento dei rapporti di forza. Apre alla Flat Tax, in accoppiata con il suo salario minimo annunciando anzi di aver già chiesto apposito vertice di maggioranza. Glissa sulla Tav: «Ne parleranno Conte e il presidente della Repubblica francese e poi il governo deciderà».

Tiene botta sulle autonomie, che «si faranno ma senza andare a scapito della coesione nazionale e senza creare una sanità e un'istruzione di serie c». Fa capire di non volere né potere cedere sulla rigidità contro gli indagati per corruzione.

La strategia di Salvini, già anticipata più volte alla vigilia, è stata confermata ieri in conferenza stampa e già prima, nella notte del trionfo: «Nessuna resa dei conti». Lealtà a Conte e all'alleanza con i bastonati, con l'auspicio che «abbassino i toni». Nessun rimpasto. Quando si passa al programma però la musica melliflua cambia, i toni diventano imperiosi e ferrigni: «Gli italiani ci hanno dato un mandato per fare la Tav e le autonomie».

E non solo questi due capitoli, per i soci già dolentissimi: ci sono anche la Pedemontana, la Flat Tax, l'indicazione di un commissario europeo che, se l'Italia strapperò un dicastero europeo economico, sarà probabilmente Giorgetti. E ci sarà una diga contro la pretesa dei 5S di mettere alla porta i ministri indagati: «Il voto dimostra che i processi in piazza non appassionano».

La vittoria della Lega è piena, da qualsiasi punto di vista si guardi la scacchiera. L'incasso da casino sbancato non è solo nelle percentuali ma anche nei voti assoluti: 3 milioni e mezzo in più. Il solo altro partito ad aver aumentato i voti reali, oltre che la percentuale, è FdI: anche senza Fi la destra arriva alla soglia del 40%, oltre la quale dovrebbe poter disporre della maggioranza parlamentare. Ma è un conto per difetto: il crollo di Fi rende da un lato meno ingombrante l'eventuale alleanza con Berlusconi ma dall'altro imprime un potente accelerazione al processo centrifugo nel partito azzurro.

Il governatore della Liguria Toti, capofila dei forzisti vicini a Salvini ha aspettato il mattino per attaccare ma già con le prime luci del giorno ha dato fuoco alle polveri: «Basta scuse, ora tutti a casa e cambiamo per ripartire. Una classe dirigente che ha difeso a oltranza le poltrone ha mentito a Berlusconi e agli elettori». E tuttavia Salvini, nonostante le pressioni di Giorgetti, non intende denunciare l'alleanza con i soci che lo hanno massacrato in campagna elettorale.

Prima di tutto perché non è affatto convinto che alla crisi seguirebbero davvero ineluttabilmente le elezioni e un eventuale governo ponte sostenuto da Pd e M5S sino alla primavera, ipotesi che Mattarella probabilmente caldeggerebbe, sarebbe l'anticamera di una possibile e pericolosa alleanza elettorale, poi perché in vista della vera prova del fuoco, la prossima legge di bilancio, ha più che mai bisogno dei due forni: dell'alleanza con i 5S per garantire una maggioranza vastissima del Parlamento e del Paese da mettere sul piatto della bilancia nelle trattative con Bruxelles, di Fi perché solo Berlusconi, ancor più di Orbàn, può rappresentare quel ponte con il Ppe di cui il premier in pectore ha bisogno per uscire vivo dalla sfida sulla legge di bilancio. Le elezioni politiche possono attendere la prossima primavera.

Ma per i 5S il discorso è ben diverso. E' vero che il sorpasso da parte di un Pd che peraltro in termini di voti assoluti ha perso e non guadagnato rende meno impraticabile l'ipotesi di una maggioranza comune per rinviare il voto, ma si tratta comunque di un'eventualità remota e arrivare a elezioni ora sarebbe per i pentastellati una scelta suicida.

Casaleggio, che da sempre è il principale sponsor dell'alleanza gialloverde, ha dato una mano alla stabilità confermando proprio alla vigilia del voto il tetto dei due mandati per gli eletti a cinque stelle: Di Maio dunque non potrebbe ricandidarsi. Ma anche piegarsi troppo al pugno di ferro leghista vorrebbe dire estinguersi, anche se guadagnando qualche mese. Questo è il dilemma dell'M5S e se la legislatura sopravvivrà o no dipenderà da quale delle due vie il Movimento sceglierà di seguire. O forse dipenderà da quando il leader leghista deciderà di mettere sul tavolo una richiesta del tutto inaccettabile per i soci allo scopo di costringerli ad assumersi la responsabilità della rottura.