Di Maio ha ragione a protestare contro la grande stampa. È vero: i giornalini ce l’hanno con lui. Guarda il caso della paghetta. Lui il 28 settembre va al balcone, si entusiasma e gli scappa una frase un po’ così, diciamo: “Abbiamo abolito la povertà”. E tutti a prendere sul serio la faccenda. Eppure Salvini, da attento biblista qual è, glielo aveva detto: medita sull’episodio dell’unzione di Betania ( Gv 12,1- 8). Quando Maria “presa una libbra di profumo di nardo genuino di grande valore unse i piedi di Gesù” e Giuda protestò: “Perché questo profumo non si è venduto per trecento denari e il ricavato consegnato ai poveri?”

A parte il consiglio di diffidare di chi ti spiega come fare risparmi sulle spese di bilancio, la questione è che Gesù chiude la faccenda ammonendo che mentre Lui sta per andarsene “i poveri li avrete sempre con voi”. Abolire la povertà è una grande ambizione e forse un decreto, anche se bene ispirato, non è sufficiente a sistemare l’economia mondiale una volta e per sempre.

La questione sta nelle intenzioni. Non sembra affatto che Di Maio volesse abolire la povertà, piuttosto il contrario. A fianco della paghetta viene infatti introdotta nel nostro sistema una discriminazione difficile da digerire. A quanto si va scoprendo di giorno in giorno, mentre i ricchi con i loro soldi possono continuare fare quello che vogliono, almeno per adesso, per i poveri sono previste regole e limitazioni. Sembra deciso: il vino sì e la grappa no, sullo champagne stanno ragionando. La schedina del totocalcio è proibita, perché sognare è un fatto eversivo. Anche sul cibo ci sono delle restrizioni, non dettate dalla dietologia ma dalle mene di qualche funzionario.

Non ricordo l’introduzione nel nostro sistema giuridico di niente di simile, almeno dai tempi dell’Italia dei Comuni, quando andavano forte le leggi suntuarie, che proibivano di comperare questo o quell’oggetto, di farsi fare un vestito troppo lungo o troppo stretto. Ma si trattava di norme moralizzatrici poste con lo scopo di limitare lo sfarzo dei ricchi, l’esibizione del lusso, mica di limiti caricati su chi già se la passava male. Le restrizioni alla spesa per alcuni cittadini, associate all’obbligo di esaurire l’intera dotazione mensile di denaro elargito dallo Stato, creano di fatto una condizione prima inesistente, lo stato di povertà formalizzato e accompagnato da obblighi precisi. Non vorrei drammatizzare – per ora questa è una farsa e non una tragedia - ma solo notare che si sta scherzando col fuoco. Imporre regole particolari ai cittadini a seconda del loro status economico fa arretrare la civiltà giuridica liberale di qualche secolo, se non di millenni. Cancella d’un colpo tutte le carte e le dichiarazioni egualitarie prodotte dalla firma della Magna Charta da parte di Giovanni Senza Terra. Va bene non riuscire ad abolire la povertà per decreto - chi può farlo? - ma crearla per introdurre una paghetta non è una grande idea. Forse era meglio il reddito di cittadinanza solido, egualitarista, robinhoodesco, libertario, al profumo del Sessantotto, ma liberi di spenderlo a piacere.