Scrissi a Giovanni Falcone da giovane laureato una lunga lettera nella quale lodavo il suo lavoro e quello di tutto il pool antimafia di Palermo, non condividevo però il fatto che lui andasse a Roma al ministero di Grazia e Giustizia. Ovviamente non mi aspettavo risposta, sia per il momento storico in atto, sia per gli impegni di Falcone. I fatti mi smentirono. Il 21 febbraio 1992 arrivò la lettera di Giovanni Falcone. L’ho tenuta in uno scrigno da allora, nessuno ne conosceva l’esistenza, neanche la mia famiglia. Poi ho deciso di leggerla esattamente ventitré anni dopo agli studenti del liceo Romita di Campobasso alla presenza di Pino Arlacchi, amico e collaboratore stretto di Falcone e Borsellino. C’è stata una grandissima commozione in sala ed ho capito che era ingiusto tenerla solo per me. Soprattutto per il suo messaggio finale che, se fosse vivo Falcone, sarebbe ancora una volta rivolto a tutti i giovani com’ero io all’epoca: “Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali”. L’insegnamento di Falcone e il suo esempio sono stati, sono e saranno guida preziosa per il mio cammino lavorativo e di vita. La professionalità di Giovanni Falcone e la sua rettitudine sono ancora oggi esempio mondiale di come si possa sconfiggere la mafia. Tutto profondamente giusto e storicamente innegabile. Peccato che fra chi oggi pronunci queste frasi, magari tentando di piangerlo, ci siano anche coloro che, prima della sua tragica morte, lo uccisero più volte pur lasciandolo in vita. Queste parole le ho sentite dalla voce flebile di Antonino Caponnetto con il quale ho condiviso un breve periodo della mia vita. Per ricordare il ventisettesimo anniversario della strage di Capaci che costò la morte a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, voglio evidenziare quest’aspetto che non tutti conoscono anche per questioni anagrafiche. È giusto e moralmente corretto che tutti sappiano. In special modo i giovani Alessandro Pizzorusso, componente ' laico' del CSM designato dall'allora PCI, firma sull'Unità un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe ' governativo', avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza.

Quando, il 23 maggio viene ucciso, anche Borsellino, l'amico di sempre capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Rivela: «So che è arrivato il tritolo per me». A due colleghi magistrati confida, in lacrime: «Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire».

Questa, nella sua essenza, la storia. Ora arriveranno le storie, il meccanismo descritto da Atwood. Procomberà chi non c'era: ci spiegherà, come già ci ha spiegato, il come, il quando, il chi, il perché. Non c’era.

Quell’aria, in quei giorni delle stragi di Dalla Chiesa e di Falcone, di Borsellino e delle altre, non le ha respirate. Non ha visto quei corpi devastati, quegli sguardi smarriti, le bestemmie e le invettive. Non c’era, ma dice di sapere; e ora ci spiega, racconta fin nei dettagli.

I particolari che ignoriamo, le spiegazioni. Conosce. Forse, magari, è davvero convinto di sapere. E sommessamente ti dici: quanto ci manca Leonardo Sciascia, quel suo “I professionisti dell’antimafia” così attuale, pre/ veggente, così capace di vedere e capire in anticipo quello che accade, è accaduto… devono sapere che il giudice istruttore che col maxiprocesso e i suoi metodi investigativi distrusse “Cosa Nostra” dell’epoca, ancor oggi faro per la lotta alle mafie a livello internazionale, in vita fu odiato e disprezzato. Nel 1988, il Csm gli preferì Antonino Meli come giudice istruttore di Palermo. L’attentato all’Addaura del 20 luglio 1989 fu trasformato in una farsa messa in piedi dallo stesso magistrato. Falcone, in sostanza, se lo sarebbe organizzato da solo. Le cose per Falcone peggiorarono sempre di più con il passare del tempo.

Nonostante il clima ostile nei suoi confronti Falcone crea la Procura nazionale antimafia e la Direzione investigativa antimafia. In tantissimi, anche dopo i suoi numerosi successi giudiziari, puntarono nuovamente il dito contro Falcone, accusandolo di tenere le carte su alcuni delitti eccellenti chiuse nei cassetti. Leoluca Orlando e gli uomini del suo entourage si scagliarono più volte contro Falcone, che a loro dire non dava il giusto valore alle versioni dei pentiti e si affidava solo alle prove fattuali. Il 9 gennaio 1992, Sandro Viola, in un articolo intitolato “Falcone, che peccato…”, scrisse che non riusciva più a “guardare a Falcone con rispetto”, lo accusò di essere affetto da “febbre di presenzialismo”, giunse a dire che avrebbe fatto meglio ad “abbandonare la magistratura” e lo descrisse come preda di una “eruzione di vanità” come quelle che colgono i “guitti televisivi”. Persino la scelta naturale e scontata che fosse Falcone a guidare la Procura nazionale antimafia, provocò moltissime critiche oggi tutte dimenticate. Armando Spataro, ex procuratore di Torino, affermò: “Ha fatto una ferraglia e ora vuole guidarla lui”, e poi firmò una lettera per rimproverare Falcone di “apparire pubblicamente a fianco del ministro”. Ilda Boccassini, infine, magistrato a Milano, ammonì così Gherardo Colombo: “Con che coraggio vai ai suoi funerali, tu che diffidavi di lui”. Questa era la vita di Giovanni Falcone in quel periodo. Favorevole alla separazione delle carriere fra giudici e pm, contrario all’obbligatorietà dell’azione penale. Lo osteggiavano anche per questo. Non ha mai avuto una vita facile ma per tanti italiani onesti è, e sarà sempre, un modello cui ispirarsi. I veri nemici di Falcone, purtroppo, ancora oggi lo celebrano per poi “trattare” come se nulla fosse con la mafia che lui ha combattuto e che lo ha ucciso.

* Giurista e presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise