Il 18 maggio di trentun anni fa: quel giorno agenzie di stampa, e poi i notiziari radio- televisivi annunciano che Enzo Tortora è morto; il tumore che lo tormenta e lo fa soffrire da mesi, alla fine ha vinto. Fa in tempo, Enzo, a vedersi riconosciuta l’innocenza da anni proclamata: un anno prima la Corte di Cassazione lo ha assolto definitivamente dall’infamante accusa di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di droga, affiliato alla Camorra di Raffaele Cutolo. Si aggrappa alla vita con le unghie e i denti, per poter vedere quel verdetto. Poi arriva lo schianto. “Mi hanno fatto scoppiare una bomba dentro”, dice a proposito di quel tumore, e della vicenda che lo vede vittima- protagonista. Nel corso della requisitoria del primo processo, il Pubblico Ministero sillaba: “Ma lo sapete voi che più si cercavano le prove della sua innocenza, più si trovavano quelle della sua colpevolezza?”. Chissà che ricerche. Lo stesso Pubblico Ministero, tanti anni dopo, ammette l’errore. Che non può essere liquidato come “errore”, come “abbaglio”. Troppo semplice, troppo facile; perfino consolatorio definirlo un “errore”, un “abbaglio”. In realtà, fin da subito, contro Enzo non c’era nulla; e quel nulla era talmente visibile che anche un cieco lo avrebbe potuto vedere. Non si vide, perché non si volle vedere. Non si capì perché non si volle capire.

Contro Tortora non c’era nulla. L’architrave dell’ipotesi accusatoria si regge sulla parola di due falsi pentiti: uno psicopatico, Giovanni Pandico; e Pasquale Barra detto, a ragione, ‘ o animale: in carcere uccide il gangster milanese Francis Turatello, lo sventra, ne addenta le viscere. Poi, a ruota, vengono un’altra ventina di sedicenti “pentiti”: tutti a raccontare balle, una più grande dell’altra, per poter beneficiare dei vantaggi concessi ai “pentiti”.

Accuse che con fatica e infinita pazienza vengono smontate: la difesa di Tortora fa una vera e propria contro- inchiesta, che demolisce, letteralmente, l’inchiesta della procura napoletana. Una vicenda che ha dell’incredibile per la quale nessuno poi paga: non i falsi “pentiti”; non i magistrati della pubblica accusa, che anzi, fanno carriera. Tortora invece patisce una lunga carcerazione. Al suo fianco il Partito Radicale di Marco Pannella che lo elegge al Parlamento Europeo ( poi si dimette, rinunciando all’immunità); Leonardo Sciascia, Piero Angela, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Vittorio Feltri, Massimo Fini, chi scrive; davvero in pochi. Tanti, al contrario, si producono nel crucifige. Se è stata una pagina nera per la magistratura napoletana, ancora più nera lo è stata per il giornalismo, che acriticamente ha pubblicato pagine e pagine di falsità infamanti, senza controllare, senza verificare.

Eppure nulla giustificava quello spettacolare arresto. Anni fa ho intervistato per il Tg2 la figlia di Tortora, Silvia. Intervista che ancora oggi mette i brividi: Chiedo: Quando Tortora venne arrestato, cosa c’era oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra? “Nulla”.

E’ stato pedinato, controllato? “No”.

Intercettazioni telefoniche? “No”.

Ispezioni bancarie? “No”.

Definito “cinico mercante di morte”, su quali prove? “Nessuna”.

Qualcuno ha chiesto scusa a suo padre? “Nessuno”.

Gli accusatori hanno pagato per le loro false accuse? “No”.

Sull’ondata di questo scandalo, radicali, socialisti, liberali, raccolgono le firme per tre referendum per la giustizia giusta; tra i tre, uno per la responsabilità del magistrato che commette colpa grave. I referendum vengono poi vinti a furor di popolo; e traditi da un Parlamento che disattende platealmente il volere popolare.

Ora Tortora riposa al Monumentale di Milano, con accanto una copia de “La colonna infame” di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe dettata da Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Chissà.