«Scaranti’, io non le credo», questo disse nel 1994 l’allora pm di Caltanissetta Ilda Boccassini che indagò sulle stragi mafiose del 1992 a Vincenzo Scarantino per un colloquio investigativo, il quale da qualche mese collaborava con i magistrati per raccontare alcuni retroscena sulla strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Dichiarazioni che poi si riveleranno farlocche, ma riconosciute tali solo dopo diversi anni e grazie al Borsellino quater il quale certificò che l’indagine sulla strage di Via D’Amelio fu il più grande depistaggio della storia. A raccontare questo retroscena in aula, al processo sul depistaggio sulle indagini della strage di 27 anni fa, è proprio Vincenzo Scarantino. Non ha chiarito se si trattava di un interrogatorio formale o un colloquio ma ha ricordato che alla fine dell’incontro, Ilda Boccassini lo osservò e, guardandolo fisso negli occhi, gli disse quella frase: «Scaranti’, io non le credo». Di più non ha aggiunto l’ex picciotto della Guadagna, al secondo giorno di deposizione nel processo che vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, che facevano parte del Gruppi investigativo “Falcone e Borsellino” guidato dall'allora capo della Squadra mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. I tre, ricordiamo, sono accusati di concorso in calunnia aggravata dall'avere favorito Cosa nostra. Nel dicembre del 2015 Ilda Boccassini, deponendo in videoconferenza al processo Borsellino quater, aveva ripetuto le sue perplessità sulla credibilità di Scarantino che però era stato creduto da poliziotti e pm. «Il pentimento di Scarantino? La prova regina della sua inaffidabilità», aveva detto. E ancora: «Verificare quello che diceva Scarantino non era mio compito, io stavo per andarmene ed ero impegnata in altre attività e quelle spettavano ad altri pm». Perplessità che furono oggetto anche di una lettera inviata alle Procure di Caltanissetta e Palermo. Scarantino, durante la sua deposizione, ha aggiunto altri dettagli per quanto riguarda i motivi per il quale era stato indotto a confessare e accusare persone del tutto estranee alla strage dove perse la vita Borsellino. «Io ero un ragazzo - ha raccontato Scarantino, anche ieri coperto da un paravento per non farsi vedere - E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dei magistrati e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare». Scarantino si riferisce al periodo del 1995, quando l'ex pentito si presentò per la prima volta davanti a una corte d'assise al processo per la strage di via D'Amelio. «Ma non sempre riuscivo a spiegare ai magistrati o alla corte quello che mi insegnavano. Loro mi dicevano. “Quando non sai una cosa basta che dici ai magistrati che devi andare in bagno, tu ti allontani e poi ci pensiamo noi. Ti diciamo noi quello che devi dire\”. Quando andavo alle udienze dicevo che dovevo fare la pipì, andavo nella stanza e mi dicevano loro cosa dire. E io poi in aula cercavo di ripetere le cose che mi dicevano». Poi, il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, che rappresenta l'accusa con il pm Stefano Luciani, gli ha chiesto del periodo trascorso da Scarantino a Imperia dove viveva sotto protezione con la sua famiglia. «Veniva il dottor Bo con una carpetta - ha detto Scarantino -, c'era Mattei che consegnava dei fogli e loro mi tranquillizzavano. Mi dicevano sempre di stare tranquillo ma la mia coscienza non mi permetteva di avere questa tranquillità che loro mi volevano trasmettere». E ha parlato di ' minacce psicologiche' che avrebbe subito da un altro poliziotto, Vincenzo Ricciardi. «Gli dissi che ero innocente, lui mi ha fatto questa minaccia psicologica che ero lontano da mia moglie e dai miei figli che, per me, erano la cosa più importante della mia vita e quando toccavano questo tasto io rischiavo di impazzire».