La tensione fra cinquestelle e Lega resta oltre il livello di guardia e potrebbe diventare insostenibile nel Consiglio dei ministri annunciato per oggi, se si riunirà davvero. Il partito di Luigi Di Maio non intende fare sconti sulla posizione di Armando Siri, il sottosegretario coinvolto nell’inchiesta sulle presunte tangenti per l’eolico, e ieri il vicecapogruppo del Movimento a Palazzo Madama, Primo Di Nicola, ha dichiarato che «Siri deve uscire dall’esecutivo», e «se non lo farà» sia «lo stesso Conte a pretenderne le dimissioni». Una linea durissima che sembra essersi rafforzata dopo l’intervista a Nino Di Matteo apparsa su Repubblica il giorno di Pasqua: il sostituto della Dna - indicato fino a poco prima delle Politiche come possibile ministro dell’Interno ( il ruolo di Salvini) - ha detto: «È necessaria una svolta della politica», che deve «intervenire prima: non si possono aspettare le sentenze dei magistrati». Un’offensiva a cui la Lega sembra decisa a reagire col veto sul “Salva- Roma”.

Non sarà di certo un mitra e un post di cattivo gusto a decretare la fine prematura del governo Conte. Ma i soldi da versare nelle casse di Roma Capitale potrebbero essere un ottimo pretesto per far saltare definitivamente l’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega. Dopo settimane di bordate reciproche a distanza e richieste incrociate di dimissioni - per il sottosegretario Siri, da un lato, e per la sindaca Raggi dall’altro - la contesa tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini si sposta a Palazzo Chigi, dove oggi si riunirà il Consiglio dei ministri. All’ordine del giorno c’è il Decreto crescita, al cui interno si nasconde una norma insidiosissima per la maggioranza: il Salvaroma, il provvedimento con cui lo Stato si farebbe carico di una consistente fetta del debito capitolino accumulato nel tempo ( dagli anni ’ 50 al 2008, circa 12 miliardi di euro), consentendo al Campidoglio la serenità amministrativa.

«A Roma mi sembra che c’è un sindaco che non ha il controllo della città, dei conti, della pulizia, delle strade, delle case, quindi regali non ne facciamo, la Lega non ne fa», annuncia senza giri di parole il ministro dell’Interno, lanciando l’ennesimo atto d’accusa nei confronti di Virginia Raggi, un modo come un altro per colpire l’intero Movimento 5 Stelle. «Non ci sono comuni di serie A e comuni di serie B, se in tanti hanno dei problemi aiutiamo quelli che hanno dei problemi, non ci sono comuni più belli o più brutti», aggiunge Salvini, surriscaldando il clima alla vigilia di uno dei Cdm più complicati dell’era del “cambiamento” giallo verde.

«Voglio rassicurare il ministro Salvini, non c’è nessun “Salva Roma”. Dalla lettura della norma, peraltro non replicabile, si comprende che così viene chiusa l’operazione voluta dal Governo Berlusconi nel 2008, con un considerevole risparmio per lo Stato e per i cittadini», replica con lo stesso tono la vice ministra dell’Economia, Laura Castelli, riaprendo implicitamente un’altra polemica con l’alleato: la relazione del suo partito, passata e futura, con Forza Italia. «Non c’è sempre bisogno di un nemico, perché in questo caso non c’è un nemico. I Comuni vanno salvati tutti, perché così si salvano i servizi ai cittadini, l’ho detto anche nei giorni scorsi e lo confermo», aggiunge Castelli, entrando nel merito delle preoccupazioni espresse dal leader del Carroccio. Salvini lascia che l’esponente pentastellata dica la sua, ma non si scompone neanche un po’: «Io ho le idee chiare, se hanno bisogno loro di un chiarimento con se stessi non c’è nessun problema», afferma il capo dei leghisti, a cui i grillini capitolini chiedono i 49 milioni “sottratti” alle casse pubbliche.

La gelida distanza tra “soci” è ormai così evidente che nessuno si sforza più di minimizzarla. La normale contesa da campagna elettorale ha ormai lasciato il posto alle accuse, alle gelosie, alla diffidenza. Soprattutto adesso che in ballo c’è anche la permanenza al governo di un sottosegretario salviniano, Armando Siri, indagato per corruzione.

Se il Pd presenta mozioni di sfiducia, i grillini ne chiedono espressamente “la testa” proprio per evitare un passaggio d’Aula al Senato. Lo hanno ripetuto fino a ieri, per bocca di Primo Di Nicola, vice capogruppo M5S a Palazzo Madama. «Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte deve dare un segnale a tutte le forze politiche e al Paese: Armando Siri, il sottosegretario indagato per corruzione, deve uscire dall’esecutivo», è la richiesta formale. «E se non lo fa volontariamente, per il rispetto che dovrebbe alle Istituzioni, sia lo stesso Conte a pretenderne le dimissioni». Ma Salvini non sembra essere d’accordo. E oggi avrà modo di farlo sapere a Di Maio in Cdm.