I grandi interpreti si riconoscono quando affrontano i temi più impegnativi. È il caso di Gianfranco Ravasi, cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la cultura che ha deciso di misurarsi con Le sette parole di Gesù in Croce (Queriniana, 280 pagine, 20 euro) uno dei luoghi dello spirito più intensi e frequentati della tradizione cristiana.

Teologi si sono interrogati su di esso e cultori di arti diverse ne hanno fatto oggetto delle loro ricerche espressive. Da Piero della Francesca con Le Storie della Vera Croce a Franz Joseph Haydn nella partitura musicale che Ravasi giudica la più nota esegesi musicale dell'argomento, le Sette sonate con una introduzione ed al fine un terremoto scritta dal gigantesco e prolifico e rivisitata più volte nel corso della vita.

A rigor di termini, le sette parole, ossia le sette frasi, pronunciate da Gesù crocifisso non esistono. Quelle sulle quali la cristianità riflette da duemila anni sono la collazione di quanto riferito dai vangeli, con qualche sovrapposizione e leggere discrepanze, senza una sintesi comune. Esse sono “Padre, perdona loro...”, “Ecco tuo figlio... Ecco tua Madre...”, “Oggi sarai con me nel paradiso”, “Dio mio perché mi hai abbandonato”, “Ho sete”, “E' compiuto”, “Nelle tue mani consegno il mio spirito”.

Ravasi affronta la complessità degli argomenti collegati con i brani evangelici che riferiscono le ultime parole di Gesù utilizzando due registri principali. Uno più colloquiale, diretto, una sorta di tonalità minore che avvicina il lettore alla drammaticità della vicenda e all'umanità dei protagonisti, l'altro, che si potrebbe definire maggiore, affronta i temi suscitati dalle parole con lo sguardo del teologo. Nei paragrafi che affiancano la narrazione del momento nel quale viene pronunciata la prima parola si passa dal perdono richiesto da Cristo al Padre per quanti infieriscono su di lui a una attenta riflessione su grammatica, teologia, memoria, psicologia, terapia ed economia del perdono stesso.

Nella costruzione del testo non si trova però nessuna meccanicità. Ogni parola viene affrontata in maniera autonoma e differenziata, senza forzature, alla ricerca della particolarità dell'accaduto e dei riferimenti scritturali che la riguardano. La vivacità del testo e la varietà dei citazioni, che come d'abitudine per l'autore raccoglie ben oltre i confini specialistici, rende la lettura ricca di suggestioni.

Troviamo tra le altre una sottile notazione di Raymond Brown, che sottolinea come in tutti i vangeli una sola volta e una sola persona si rivolga al Cristo con il semplice e familiare appellativo di “Gesù”: si tratta del ladrone buono, il primo santo canonizzato dal Signore stesso, che condivide con lui la passione e attraverso di essa trova la via per conquistare la redenzione.

Scrittori come Jorge Louis Borges e Miguel de Unamuno sono convocati, il primo per una rilettura del medesimo passo, che si trova solo in San Luca, attraverso una lirica che si conclude con un dolente “Nient'altro si dissero finché venne la fine”, il secondo per la versione tormentata del grido di Gesù morente “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” che il grande scrittore spagnolo trasforma in un persino più tragico “Cristo nostro, Cristo Nostro! Perché ci hai abbandonato?”

Con efficacia particolare, riferito ancora alla parola del buon ladrone Ravasi scrive ” è noto che non sempre il mondo dei bassifondi si rivela un luogo di solidarietà tra sciagurati: spesso anche fra loro si annida l'egoismo, il desiderio di possesso, la prevaricazione”. Straniante constatazione di come la buona società costituisca con sicurezza quasi assoluta il luogo dove i vizi sono coltivati con maggior determinazione.

Sono semmai i poveri, gli emarginati coloro in mezzo ai quali più ci si aspetta di trovare solidarietà.

Prima delle pagine conclusive, dedicate alla presentazione di alcune delle più incisive “esegesi artistiche” delle Sette parole di Gesù in Croce, l'autore sviluppa i temi della risurrezione e della croce. Quasi di sfuggita, dopo una citazione del polacco Jan Dobraczynski, che chiede all'interlocutore “Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?”, Ravasi propone una chiusura di capitolo personale, intensa e illuminante “Il credere e il comprendere si intrecciano in modo complesso e delicato e costituiscono la struttura fondamentale della fede e della teologia cristiana”.

La frase che si propone come oggetto singolarmente adatto per una meditazione in occasione della Pasqua.