L’algoritmo che tutto sa di noi mentre noi nulla sappiamo di lui è il nuovo nucleo del firmamento socio- comunicativo; un universo dove il mito antropocentrico, cioè dell’uomo che comanda la tecnica considerata estensione delle sue facoltà, del suo Io, si rovescia nel contrario. E non c’è più speranza. Umberto Galimberti, filosofo, esplora da tempo il rapporto uomo- macchina. Le sue conclusioni sono fin troppo nette.

Professore, comandano gli algoritmi e le nuove tecnologie inghiottono l’umanesimo. E’ così?

Sì. È questa ormai la condizione degli umani. Si lavora come l’algoritmo stabilisce, si procede come l’algoritmo comanda.

Senza scampo alcuno?

Il problema è che continuiamo a pensare - ed è un errore tragico, frutto di pigrizia mentale - di avere la tecnica come strumento a nostra disposizione. Non è vero, non è assolutamente vero. La tecnica è ormai diventata il soggetto del mondo e gli uomini si sono trasformati in apparati di questa tecnica. Il grande capovolgimento sta qui. L’aveva già annunciato Hegel declinando un teorema semplice ed elementare: quando un fenomeno cresce quantitativamente, in parallelo il contesto cambia qualitativamente. L’esempio è facile. Se c’è un terremoto di due gradi della scala Mercalli nessuno, a parte i sismografi, se ne accorge. Se tocca nove gradi di intensità, il paesaggio cambia radicalmente. E’ un argomento sfruttato successivamente anche da Marx in chiave economica. Il denaro è un mezzo per soddisfare i bisogni e produrre i beni, ma se diventa la condizioni universale di entrambi, allora da mezzo diventa fine. Lo stesso capovolgimento è avvenuto anche con la tecnica. Se la tecnica diventa il canone universale per realizzare qualsiasi scopo, non è più uno strumento bensì il primo e pervasivo scopo di esistenza.

Lei ha scritto: la tecnica funziona. Esattamente per fare cosa, professore? Funziona nella forma dell’autopotenziamento. La tecnica non ha scopi di salvezza, non dischiude orizzonti di senso. Essendo diventata la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, è desiderata da tutti. Non ha sbocchi, sa di essere appetibile per il solo fatto che si autorafforza. Si potrebbe dire della tecnica ciò che Nietzsche diceva della volontà di potenza: non c’è niente che vuole, tranne se stessa.

Ma noi oggi siamo dominati dalla tecnica e anche dai mezzi, dai dispositivi mediante i quali si invera. Il telefonino è diventato una protesi indispensabile di noi stessi.

Giorni fa ho accompagnato il mio nipotino a scuola. Mentre andavo, una signora mi riconosce e mi chiede: il mio bambino fa la quinta elementare e vuole uno smartphone, cosa devo fare? Ho riposto: glielo dia pure. Perché se non lo fa - e sarebbe giusto - priva suo figlio della socializzazione. Cosa significa questo? Che la tecnica esonda e diventa condizione sociale. Esonda dalle categorie di spazio e tempo. I giovani vivono nella velocizzazione del tempo mentre lo spazio è del tutto abolito: parlano con chi è in Australia. La tecnica modifica il nostro modo di essere nel mondo e l’attuale è la prima generazione dove l’esperienza dei padri non può passare ai figli. Perché i padri sono vissuti in un mondo reale mentre i ragazzi vivono in un mondo virtuale.

L’effetto è che tutto questo disumanizza l’uomo. Cancella ogni scenario umanistico: è pura distopia.

Certamente. La disumanizzazione può essere verificata facendo un passo in più perché finora in realtà abbiamo parlato di tecnologia. Ma la tecnica è qualcosa di più radicale. La tecnica è la forma più alta di razionalità mai raggiunta dall’uomo. In cosa consiste questa razionalità? Nel raggiungere il massimo degli scopi col minimo dei mezzi. Una volta il telefonino era grande come una valigia e svolgeva una funzione sola. Adesso è piccolissimo e ne svolge centomila. E’ il modello della razionalità tecnica, che ha superato perfino il mercato perché il mercato possiede ancora un passionalità umana: la ricerca del denaro.

Attenzione, non basta. Prendiamo due persone che si innamorano. Dal punto di vista “tecnico” è sufficiente che una dica all’altra: ti amo. Proposizione semplice, senza spessori semantici e simbolici che confondono. E’ irrazionale l’amore, è irrazionale il dolore, è irrazionale il sogno. Ma cosa fa la tecnica? Elimina l’irrazionale, lo cancella. Vuole che l’uomo funzioni secondo criteri di efficienza e razionalità. Il resto è ridondante.

Professore, uno dei settori più delicati è l’uso della tecnologia nel campo della politica, il cosiddetto brain hacking, cioè la possibilità di influenzare e condizionare i comportamenti attraverso la tecnica.

La politica è stata inventata da Platone: la tecnica stabilisce il come ma è la politica che decide se e perché si devono fare le cose. Il punto è che oggi però la politica non decide più niente.

Infatti: decide la tecnica.

Ma lo decide in modo più radicale. La politica per decidere guarda l’economia, e l’economia per decidere guarda alle risorse, cioè agli investimenti. Mentre la tecnica è una struttura cieca, che non ha scopi.

Sicuro professore? Eppure ci sono movimenti come l’M5S che usano la tecnologia, cioè la Rete, per decidere il modo in cui comportarsi. Al dunque è un fattore liberante o condizionante?

Condizionante in maniera categorica. Se io mi rivolgo direttamente al popolo che si esprime attraverso un like, un sì o un no, eliminando tutte le strutture intermedie, creo il fascismo. Loro non lo sono, l’M5S non lo è. Ma eliminando tutti i corpi intermedi della società si finisce in quell’imbuto. Guai a fare una operazione simile. Anche perché - cosa di cui non ci si rende abbastanza conto - la tecnica pone sul tavolo problemi che esorbitano enormemente dalla competenza media di noi cittadini. Se mi chiedono vuoi o non vuoi le centrali nucleari, io per decidere con competenza devo essere un fisico nucleare. Se non lo sono su quali basi decido, e come? Perché ascolto il Papa, il mio partito, o chissà cos’altro? Decido sulla base di ragioni irrazionali. E Platone dice che se la democrazia deve fondarsi su ragioni irrazionali, allora è meglio l’aristocrazia.

Ma noi cittadini come possiamo difenderci da tutto questo? Creando algoritmi “buoni” al posto di quelli “cattivi”?

Vede, è una domanda che discende dalla nostra impostazione cristiana. Che cioè stabilisce ci sia sempre un rimedio possibile. Beh, non è vero, non è così. Può darsi che il rimedio non ci sia più. Può darsi che noi occidentali, che abbiamo inventato la tecnica, siamo destinati al declino. Forse, poco a poco, perfino a sparire. Del resto ci sono già tutte le premesse: secondo i dati dell’Onu nell’Occidente vive il 20 per cento della popolazione mondiale che però consuma l’ 80 per cento delle risorse. Andare avanti così non si può. Inoltre siamo il popolo più debole della Terra in quanto quello più tecnicamente assistito. Per questo pensiamo di costruire dei muri: per difenderci dal resto dell’umanità. Ma una società “murata” è una società assediata. E in una società assediata non può nascere né un Leonardo, né un Kant.

Con l’Intelligenza Artificiale quale tipo di rapporto possiamo avere? Solo di sudditanza o ci si può convivere?

Non si può convivere con loro. Come sostiene Günther Anders nel suo libro “L’uomo è antiquato”, nel rapporto uomo- macchina quest’ultima ha già vinto. E’ la macchina che regola i comportamenti e la macchina trascende la volontà dei singoli. Anders, da ebreo, sottolinea che il nazismo è stato «un teatrino di provincia» rispetto all’età della tecnica. Oggi siamo arrivati ad un punto irreversibile. Continuiamo a domandarci cosa possiamo fare noi umani con la tecnica ma la domanda è opposta: cosa la tecnica può fare di noi. La nostra capacità di fare è diventata enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti del nostro agire. Ci muoviamo alla cieca. I Greci, il popolo più intelligente mai apparso, avevano incatenato Prometeo che aveva dato agli uomini il dono della tecnica. Noi lo abbiamo liberato senza avere una cognizione precisa del limite.

Tuttavia Prometeo, l’ha scritto lei, è anche “colui che pensa in anticipo”. E allora?

Allora non possiamo più farlo perché non conosciamo gli effetti del nostro fare. Se lei chiede agli scienziati che lavorano nei laboratori: questa vostra ricerca dove porta, le risponderanno: non lo sappiamo. La loro etica è conoscere tutto quello che si può conoscere. A prescindere dai risultati.

Post Scriptum L’intervista finisce qui. Però c’è un’aggiunta che mi sembra interessante fare. Giorni fa il New York Times ha fornito il resoconto del Privacy Project che sta facendo il giornale: un’inchiesta su come le nuove tecnologie invadano e sbriciolino lo scudo di riservatezza di ciascuno. E’ risultato che in virtù di tre telecamere piazzate sul tetto di un edificio, in sole nove ore sono stati identificati 2.750 volti e i tecnici hanno costruito un database, che, usando altre immagini pubbliche, ha permesso di riconoscere molte delle persone passate nella piazza. I risultati sono stati pubblicati sulla Rassegna Stampa del Corriere online. Di fatto, a Manhattan sono migliaia le telecamere che riprendono le persone; e per un adulto esiste il 50 per cento di possibilità che il suo volto sia nei database per il riconoscimento facciale delle forze dell’ordine. Se scriviamo i nostri pensieri usando i social, gli algoritmi registrano, poi connettono e usano i dati per i loro incroci. Se camminiamo per strada, decine, centinaia di telecamere ti scrutano e spiano. Il Grande Fratello è tra di noi. Solo che non è grande: è gigantesco.