A metà anni ' 80 Steven Spielberg arrivò a Roma per presentare il nuovo film della serie Indiana Jones, prodotto con George Lucas. I due registi- produttori, in quel momento, non temevano rivali. Da soli occupavano tutti i primi posti nelle classifiche dei risultati al botteghino. «Siete i re di Hollywood?», chiesero all'enfant prodige che con Lucas non sbagliava un colpo. «C'è un solo re - rispose - ed è Francis Ford Coppola».

Nella nidiata degli ' Hollywood Brats', i cuccioli di Hollywood, quei registi nati fra il 1939 e il 1946 che negli anni ' 60 e ' 70 rovesciarono le regole ferree della fabbrica dei sogni come un calzino vecchio di cui i due facevano parte con Scorsese, De Palma e John Milius, Coppola, che domani compirà 80 anni, è il fratello maggiore e il capobranco. Quello che ha aperto la pista e che più di ogni altro pensa in grande. Il più visionario, il più pronto a correre ogni rischio pur di riuscire a portare sullo schermo le sue visioni.

A Roma Coppola, sangue lucano nelle vene, cittadino onorario di Bernalda, da dove salpò per gli states il nonno Agostino, vacanze passate speso e volentieri a Metaponto, era arrivato in pompa magna qualche anno prima, nel 1981, per presentare uno dei suoi più faraonici progetti: il restauro del Napoleon di Abel Gance, a conclusione della edizione di quell'anno della leggendaria estate romana di Renato Nicolini.

La proiezione notturna al Colosseo, con il presidente Mitterrand in tribuna, fu spettacolare, degna delle ciclopiche ambizioni del kolossal del 1927 restaurato dal discepolo italo- americano. A comporre la musica e a dirigere di persona l'oechestra c'era il padre del regista, Carmine Coppola, falutista, direttore d'orchestra e musicista jazz noto negli anni ' 30 e ' 40. Dirigeva l'orchestra in un programma radiofonico di Detroit sponsorizzato dalla Ford: il secondo nome del secondogenito viene proprio di lì.

La musica era di casa in famiglia: la madre di Francis Ford, Italia, era figlia di Francesco Pennino, un musicista e compositore emigrato da Napoli e a sua volta molto noto nei primi decenni del secolo scorso.

In occasione del genetliaco il regista ha annunciato ieri l'imminente ritorno dietro la macchina da presa dopo 8 anni. Sarebbe già una notizia, ma lo è molto di più perché Coppola non ha deciso di girare un film qualsiasi ma di realizzare un progetto che insegue da quasi quarant'anni: Megalopolis, un kolossal visionario sulla ricostruzione di una New York mitica dopo l'apocalittica distruzione della città. Nel 2001 Coppola era arrivato quasi a iniziare le riprese, poi l' 11 settembre gli suggerì di soprassedere. Ora il momento sembra essere arrivato e l'autore del Padrino e di Apocalypse Now promette che il prossimo sarà il film della sua vita: «Una grossa produzione con un cast numeroso. Utilizzerà tutti gli anni in cui ho provato a fare film con stili e generi diversi per culminare in quella che penso sia la mia voce e la mia aspirazione». Capostipite di quella che è ormai una dinastia di cineasti, forse la più potente che ci sia a Hollywood, Coppola viene da una tradizione di musicisti e ha anche lui studiato musica e pensato per un po' di seguire le orme del padre e del nonno. Scelse invece il cinema.

Dicono, e chissà se è verità o leggenda, che decisivo fu il lungo periodo in cui fu costretto a casa da bambino, quando si ammalò di poliomielite dopo il trasferimento della famiglia da Motor City a New York.

Pare che ammazzasse le ore interminabili con i burattini e un teatrino: forse la passione per lo schermo è davvero nata in quei pomeriggi. Di certo, una volta deciso quale strada imboccare, il futuro autore di Apocalypse Now si è imbattuto nel miglior maestro sulla piazza. Si è fatto le ossa con Roger Corman, uno che sapeva tirare fuori miracoli con quattro soldi a disposizione. Da lui Coppola ha imparato molto e nonostante Corman lavori spesso seguendo il registro opposto, con una vocazione precisa per l'epico e per il kolossal, neppure quella lezione è stata inutile.

Alcuni dei suoi film migliori, come La conversazione, sono un modello di come si può fare grande cinema e grande spettacolo senza dover ricorrere agli elicotteri di Apocalypse now o alla moltitudine di interpreti della saga di don Vito Corleone. In realtà ogni film di Francis Ford Coppola, poco importa se poveri o ricchissimi, se epici o intimisti, ha rappresentato una sfida.

L'uomo adora il rischio, e non esita a mettere sul tavolo veri e propri capitali. Qualche volta ha fatto centro moltiplicando con gli incassi l'esborso. Qualche volta ha mancato il colpo. I suoi trionfi, a partire dal Padrino,

sono epici. I fallimenti anche.

Quando nel 1971 la Paramount lo chiamò per dirigere il progetto più ambizioso del decennio, la versione cinematografica del libro con cui Mario Puzo aveva sbancato nelle librerie di tutto il mondo, Coppola aveva alle spalle quattro film, parecchie sceneggiature di successo ed era fresco di oscar 1970 per la sceneggiatura di Patton generale d'acciaio.

Era un giovane regista molto lodato, con un successone intimista di critica, Non torno a casa stasera. Ma di cosa fosse davvero capace e quanto fosse deciso a combattere per fare a modo suo lo dimostrò col Padrino, anche a costo di ingaggiare un braccio di ferro permanente con la Paramount.

Per il ruolo chiave di Michael Corleone scelse uno sconosciuto: Al Pacino. Quando Marlon Brando si offerse per la parte del don, chiuse le audizioni e lo mise sotto contratto anche se la major considerava il divo una stella morta.

Pretese di girare in Sicilia invece che negli studios la parte siciliana della storia, e poco male se così i costi di produzione arrivavano alle stelle. Se il film non avesse superato d'impeto ogni record d'incassi sarebbe stata la fine del regista. Invece decollò. Prima con La conversazione, un film che in realtà era stato scritto prima del Watergate ma che inevitabilmente apparve come il commento corrosivo allo scandalo che squassava l'America di Nixon e il film fece impazzire la critica colta e impegnata. Poi con Il padrino - Parte II un film che lasciò davvero tutti sbalorditi. Anche per il sequel, su sceneggiatura sempre di Puzo, Coppola si era impuntato su un nome sconosciuto per il ruolo di Vito Corleone giovane, Robert De Niro, e per la parte di Hyman Roth, personaggio modellato sul genio della finanza di Cosa nostra e ' gemello di Lucky Luciano” Meyer Lansky, scritturò il mitico direttore dll'Actor's Studio, Lee Strasberg. Funzionarono entrambi alla perfezione ma la vera sorpresa fu la capacità del regista di capovolgere il senso del film precedente: Il Padrino aveva offerto un'immagine epica e leggendaria, di fatto encomiastica, della mafia italo- americana. Il sequel la capovolgeva, metteva in scena il versante oscuro, trasformava la saga famigliare in tragedia shakespeariana. Fece il pieno di pubblico e di oscar. Rivelò l'altra faccia di un autore che ha sempre oscillato tra un versante magniloquente, sfarzoso, con un gusto per la grandiosità quali non se ne vedevano dai tempi di De Mille, e una tendenza riflessiva, contenuta, ai confini del minimalismo o a volte oltre quel limite.

Il Padrino- Parte II, caso quasi unico nella filmografia di Coppola, riusciva a coniugarle mentre di solito Francis Ford slitta da un lato all'altro della sua ispirazione a seconda del film di turno.

Se Il Padrino era stato una sfida per il sistema degli studios, Apocalypse Now portò il duello alle estreme conseguenze. Le riprese durarono tre anni, i costi rischiarono di costare l'infarto ai produttori, le difficoltà nella realizzazione varrebbero una sceneggiatura in sé.

Il risultato è un capolavoro al quale, al momento dell'uscita nel 1979, mancava comunque una parte essenziale, ripristinata nella versione del 2001, Apocalypse Now Redux: 50 minuti di girato in più che ricostruiscono i legami profondi tra il disastro americano del Vietnam e quello francese dell'Indocina. Una terza versione del film, Apocalypse Now: Final Cut, verrà presentata il prossimo 28 aprile al Festival di Tribeca a New York. Ma quali cambiamenti o aggiunte o tagli siano stati apportati per questa “versione finale” Coppola lo terrà segreto sino all'ultimo.

Francis Ford Coppola ha firmato immensi successi come quelli sin qui citati, o come il bellissimo Dracula di Bram Stoker, versione definitiva del romanzo che ha regalato al mondo il vampiro per eccellenza o Il Padrino- Parte III, nel quale il regista riporta la saga mafiosa alle sue origini siciliane, al melodramma e al teatro dei pupi.

Ha al passivo disastri commerciali che hanno quasi fatto naufragare la sua casa di produzione, la Zoetrope come il costosissimo flop di Cotton Club o come

One from the Heart, musical con musiche dell'amico Tom Waits, il primo film che metteva al lavoro le nuove tecnologie computerizzate, un azzardo geniale con esiti finanziari da pistola alla tempia. Ha prodotto capolavori come

Kagemusha- L'ombra del guerriero, il film che ha segnato la resurrezione di Kurosawa e ha avviato l'ultima magnifica fase della sua carriera, o come il Frankestein di Mary Shelley, una specie di gemello del suo Dracula, diretto da Kenneth Branagh.

La famiglia regna a Hollywood. La sorella Talia Rose, in arte Shire, la conosciamo come tutti come l' ' Adriana' della saga di Rocky.

Il nipote Nicolas Kim, figlio del fratello August, si è cambiato il nome in Cage e ha fatto strada.

La figlia Sophia ha debuttato come attrice in un ruolo da protagonista nel terzo Padrino ma le critiche la hanno scorticata viva con virulenza un tantinello esagerata. Non si è persa d'animo, è passata dall'altro lato della macchina da presa: oggi è una delle principali registe americane.

È regista e attrice anche la nipote Gia, figlia di Gian Carlo, morto in un incidente nautico nel 1986. Al momento della tragedia, il padre si apprestava a girare Giardini di pietra, film sulle reclute in procinto di partire per il Vietnam. È diventato di fatto un film sulla morte del figlio, forse il suo lavoro più maturo, di certo il più commosso.

I Coppola vivono di cinema ma non solo di cinema. Sono una holding con vinerie, resort di lusso in diversi Paesi, uno dei quali nel palazzo Margherita di Bernalda, un caffè- ristorante rinomato e una libreria a San Francisco, una rivista di letteratura e naturalmente la Zoetrope.

Straripante come Orson Welles, grandioso come De Mille, artigiano come Corman, epico e intimista allo stesso tempo vale per Coppola quel che lui stesso disse presentando nel 1979 Apocalypse now: «Non è un film sul Vietnam. E' il Vietnam».

Mezzo secolo dopo l'irruzione degli allora cuccioli di Hollywood, il capobranco è Hollywood.