La guerra al Nord ancora infuriava, seppure agli ultimi rigurgiti, e al Sud aveva piagato di più le ferite già sanguinolenti.

Lo Stato era confuso in una nebbia che si faceva pensare solida, da doverla traversare a forza di braccia, sfornava governi di pochi mesi e attendeva che finisse di compiersi la Storia. L’onorata società - a un quarto di secolo dal trasformarsi in ’ ndrangheta - riemergeva debole ma spavalda dopo aver nuotato sott’acqua o aver appena smesso la camicia nera.

La Chiesa, lorda di terra, sonnecchiava indifferente, o ne era complice, e non cedeva d’ammiccare ai potenti. La Politica di Roma già si faceva i conti elettorali e reclutava gli uomini che più pesavano sul territorio.

I “nobili” e i terrieri - gli ’ gnuri padroni del latifondo e dei destini di tutti, avevano abbassato la mano romana e afferravano il bastone della bandiera scossa dal vento della nuova patria. Il Ministro dei contadini, comunista, calabrese illuminato come non ne sorgeranno più, induceva speranze con i decreti della riforma agraria da opporre alle enormi disparità sociali. Il popolo, da affamato, sotto le sferzate del conflitto mondiale era diventato indigente da doversi saziare con gli odori del cucinato proveniente dalle case dove borbottava l’acqua nella pentola. Un capopopolo, maestro elementare, sindaco di Caulonia per acclamazione e comunista, sorse a rivendicare il diritto del “quarto Stato” a entrare nella Storia.

I braccianti agricoli gli si strinsero intorno a pigna. L’onorata società affiancò le rivendicazioni. Eccoli i protagonisti della Repubblica rossa di Caulonia del 1945, che finì con l’essere bollata come una nefandezza di mafia. Senza che lo sia stata.

Perché, se è certo che il Sindaco capopopolo e comunista, era uomo di rispetto, così come molti dei sodali lo affiancarono nella rivolta, è altrettanto certo che la circostanza non toglie lucentezza all’idea rivoluzionaria di poter mutare l’immutabile, sovvertire un destino che pareva doversi ripetere misero e cencioso, non dissimile da quello delle generazioni precedenti.

Per tanti motivi, non ultimo che l’onorata società era, agli occhi degli umili, una componente tutt’altro che disprezzabile, per l’inganno dello Stato che di fatto la legittimava. Ci camminava a braccetto, lo Stato. Ci intrecciava alleanze e affari, le allargava sorrisi compiacenti, batteva pacche benevole sulle spalle. Aveva abdicato alle funzioni, decidendo di non ingerire nella Locride, in Aspromonte, nella Piana di Gioia Tauro, e consentito così alla società di occupare gli spazi lasciati vuoti e di comportarsi, più che da antistato, da Stato parallelo che accorreva al bisogno della gente, con la violenza se diventavano inutili i ragionamenti.

Si è insomma consumata la colpa indegna di mostrare al popolo - gregge che si lascia condurre docile - la direzione da seguire. Gli stessi nobili e i terrieri, mentre si destreggiavano a spazzare via le ceneri del passato, non cedevano d’intrecciarsi con l’onorata società, tenendosela cara, utilizzandola. E la Chiesa e la Politica hanno limato il resto, completato lo sfascio, schierandosi, come lo Stato, con i notabili, Ancorandosi all’immutabilità con la crosta dei secoli. Era finita un’epoca e ne principiava un’altra, eppure nulla mutava. E s’infrangevano i sogni. Troppo si è scritto, spesso a sproposito, sulla Repubblica rossa di Caulonia.

È giunto il tempo di ripristinare la verità. E che a farlo sia la penna brillante e libera di chi a quella comunità appartiene, ne porta addosso le stimmate.

Questo è lo stato d’animo con cui Ilario Ammendolia scrive La ’ ndrangheta come alibi senza fermarsi alla Repubblica di Caulonia ma arrivando sino ai recenti avvenimenti di Riace e sulla vicenda che ha interessato il governatore Oliverio.

Oltre settant’anni di storia passano in un baleno perché l’autore scava in profondità e ben oltre le apparenze, attraversando con lucidità le lotte per le terre, l’operazione Marzano e il summit di Montalto, gli accordi “Stato” - “malavita”, la stagione dei sequestri di persona, per arrivare sino ai nostri giorni.

Non fa sconti alla ’ ndrangheta, ma piuttosto che maledirla vuole comprendere su quale terreno la “malapianta” attecchisce per meglio affrontarla e sconfiggerla, convinto com’è che finora la lotta alla criminalità organizzata sia stata non solo fallimentare ma anche uno strumento per imporre un potere neocoloniale al Sud d’Italia e soprattutto per drenare risorse, forza e dignità alla povera gente in favore dei ceti più forti.

L’autore è persuaso che gli avvenimenti che racconta dimostrino che la 'ndrangheta sia stata utilizzata come alibi per marginalizzare il Sud e la “legge” sia stata l’arma per lo sfruttamento dei ceti popolari.

Con tale consapevolezza, Ilario Ammendolia sente il bisogno di scrivere quasi di getto una “contro- storia” rispetto alla vulgata che s’è imposta prepotentemente in questi ultimi trenta anni.

Sarebbe certamente il caso che il presente lavoro attraversasse il Pollino per animare un dibattito sui temi trattati che molto spesso è stato esangue, grigio, bugiardo e stanco oltre che schiacciato sul “pensiero unico dominante” e teso alla criminalizzazione interessata del Sud e in particolar modo della Calabria