L’ultima volta era stato a Roma per presentare Miss Peregrine - la casa dei ragazzi speciali ma la nuova visita italiana di Tim Burton è ancor più speciale perché con doppia valenza. Il regista di Edward Mani di Forbice e Big Fish, infatti, riceverà stasera dalle mani di Roberto Benigni il David di Donatello alla carriera e si sdoppia per presentare anche il live action del classico Disney, Dumbo, da lui diretto ed in uscita nelle sale italiane da giovedì 28 marzo. Era da Alice in Wonderland con Johnny Depp nei panni del Cappellaio Matto che Tim Burton non si legava alla Walt Disney Company in un progetto ma ora i tempi erano maturi per quella che sulla carta è la storia più affine alle corde del regista che ha da sempre sottolineato il valore della diversità, esaltandola in tutta la sua unicità: Dumbo.

Chi non ricorda uno dei cartoni più tristi (oltre a Bambi) che la Disney abbia mai forgiato? Due momenti fondamentali: la separazione forzata tra il piccolo Dumbo e la sua mamma e gli sguardi di scherno della gente su quelle orecchie enormi e sproporzionate per un elefantino. Trasformare un cartone stra- amato e commovente in un live- action era un’operazione non da poco e molto più rischiosa di quella di Alice che era un film molto più malleabile per un creativo visionario come Burton. In attesa di vederlo calcare il red carpet dei David di Donatello e salire sul palco, in un incontro, il regista descrive il suo Dumbo e la fusione del suo cinema con la classicità Disney.

Come ha inserito la sua poetica in un classico Disney?

La storia di Dumbo è quella che più permetteva di fare qualcosa di valido, per una serie di motivi: perché ha delle tematiche che mi sono vicine, perché non ci si poteva semplicemente limitare a fare un remake di un film ormai datato. Questa storia mi consentiva di riprendere tematiche molto belle trasformandole, rendendole diverse. La mia scelta era tra Dumbo e Il gatto venuto dallo spazio.

Nella maggior parte dei suoi film, i personaggi comunicano con gli occhi. Dumbo non è da meno.

È un personaggio che non parla, le emozioni dovevano essere espresse in maniera diversa e la cosa migliore per me era andare alla ricerca di una forma semplice, pura, in un mondo così caotico. La cosa migliore per esprimere queste emozioni era attraverso gli occhi. Ci abbiamo lavorato molto per trovare il modo giusto per farlo.

Sul finale del film c’è una sorta di appello al circo senza animali. È contro l’utilizzo degli animali negli spettacoli?

Pur avendo fatto un film sul circo devo dire che non l’ho mai amato, fin da piccolo i clown mi facevano terrore e non mi piaceva vedere gli animali esibirsi. È chiaro che un animale selvatico non dovrebbe essere costretto a fare cose contro la sua natura. Lo zoo è diverso: i bambini possono imparare qualcosa che altrimenti non potrebbero conoscere sugli animali e in particolare sulle specie in pericolo d’estinzione.

Ma la presenza degli animali nei circhi non mi è mai piaciuta. Fatta eccezione per i cavalli e i cani che sembrano divertirsi.

Rispetto al cartone, qui la componente umana è molto più presente rispetto a quella animale, come mai questa scelta?

Quello che mi è piaciuto della sceneggiatura sono stati i parallelismi tra la vicenda dei personaggi umani e quella di Dumbo. C’è sempre il senso di perdita, di assenza: i bambini che hanno perso un genitore, Holt ( Colin Farrell) che ha perso un braccio, il lavoro e la moglie. Abbiamo un po’ questo senso di disorientamento, di spiazzamento e se vogliamo questa è un’analogia bella con il tema di Dumbo stesso. Si trattava anche di poter esplorare la famiglia nelle sue forme più diverse e non tradizionali.

Ha girato con Danny De Vito, Eva Green, e molti attori con cui ha già lavorato in passato. Li aveva già in mente dall’inizio come parte del cast?

Proprio perché si parlava di famiglia e fare un film ricrea questa condizione, per me era importante lavorare con figure che conoscevo bene e che avevo frequentato in passato. Michael non lo vedevo da vent’anni e poi Alan Rickman, Eva Green, Danny De Vito. In fondo se ci pensiamo bene, il circo è un po’ come un film, un gruppo di persone un po’ strane che cercano insieme di realizzare qualcosa e qui vediamo come l’arte finisce per imitare la vita. Sono stato veramente fortunato di aver potuto collaborare con loro. Con Danny riflettevamo sul fatto che abbiamo fatto tre film con un’ambientazione circense nonostante il circo non ci piaccia.

La sequenza degli elefanti rosa nel cartone animato rimane indimenticabile e controversa visto che Dumbo ( che rappresenta un bimbo) si ubriaca per sbaglio. Come ha lavorato a convertirla in uno spettacolo di bolle?

Quella sequenza è strana, era strana allora e lo è ancora oggi ed era fondamentale che rimanesse tale anche in questo film, però in un contesto diverso. L’ispirazione l’ho tratta osservando artisti che usano le bolle di sapone, mi è sembrato interessante per provare a entrare nella mente di Dumbo. Si è cercato di mantenere lo spirito della scena originale ma cambiandola e trasformandola.

La scena dei corvi è stata eliminata perché razzista?

Sì, esatto. Abbiamo invece puntato sulla semplicità del tema: un diverso che riesce ad utilizzare la sua debolezza trasformandola in qualcosa di bello.

Con quale emozione si avvicina al David Di Donatello?

Considerando che di premi non ne ricevo moltissimi e che qui mi sento a casa, è un riconoscimento al quale tengo in maniera particolare. In più mi piace ricordare alcune figure del cinema italiano che sono state per me di grande ispirazione, come Fellini, Bava e Dario Argento che sono in parte la ragione per cui faccio film.